Per sconfiggermi un giocatore deve dare il massimo. Deve battermi lui, io non gli do una mano. E Ashe mi ha battuto.
-Jimmy Connors-
Squadre e uomini
Le rivalità sportive di ogni epoca, hanno da sempre stuzzicato le fantasie più profonde di appassionati, tifosi, osservatori e addetti ai lavori.
Quelle che fanno capo agli sport di squadra, sono il più delle volte indirizzate dalla territorialità, dall’amore verso una squadra o dall’appartenenza ad una nazione rispetto ad un’altra e così via.
Ma quando si tratta di uomini che si affrontano l’uno contro l’altro, beh, allora il discorso cambia radicalmente.
Magicamente fanno prepotentemente il loro ingresso in campo tutta una serie di meccanismi psicologici, che sconfinano nel metagame, tanto da rendere la cornice della sfida tra due uomini, una sorta di palcoscenico in cui i protagonisti sono solo loro.
Il tifo lascia il tempo che trova, le luci della ribalta, la gloria, il denaro, il successo, diventano concetti superati di fronte alla voglia di prevalere sul proprio avversario, di annichilirlo, se possibile, di ridicolizzarlo.
Torna a scorrere nelle vene quel primordiale istinto di sopravvivenza, seppur applicato ad un concetto in cui entrambi rimarranno “biologicamente” vivi, ma con la consapevolezza da parte di chi prevarrà, che solo lui potrà banchettare sullo sconforto del rivale.
Ashe e Connors
Probabilmente, i concetti descritti nel paragrafo precedente, hanno perso una piccola parte della loro importanza, in tempi dove il libro paga è più importante del sangue che scorre nelle arene sportive.
Ma quando parliamo di rivalità storiche e vogliamo ritrovare quelle più appassionanti di sempre, dobbiamo provare a renderle scevre da dinamiche pecuniarie e pensare solo alle schermaglie dialettiche che le hanno contraddistinte, oltre che osservare le loro battaglie finali sul campo.
Una di queste è senz’altro quella intercorsa tra Jimmy Connors ed Arthur Ashe, due tra i più magistrali interpreti del tennis che la storia di questo sport abbia mai prodotto.
Si giocava in tempi difficili per certe dinamiche sociali e la storia dell’iconica finale di Wimbledon del 1975 ne è il paradigma massimo.
Il patriottismo di Ashe, il pragmatismo di Connors
Quel match fu preceduto da tutta una serie di scaramucce che i due misero in atto per ragioni che vanno ben al di là della semplice rivalità sportiva.
Ashe, giocatore di colore piuttosto sensibile alle tematiche delle leggi e dei comportamenti razziali di quell’epoca, è ancora oggi ricordato come uno degli sportivi più patriottici della storia e amava morbosamente il suolo natìo, anche e soprattutto perché veniva da una famiglia che gli permise di coltivare il proprio sogno di diventare un campione di tennis.
Famiglia, patria e diritti sociali, sembrano termini che, al giorno d’oggi, tra di loro non possano stare nella stessa frase e questo dovrebbe farci pensare a come la politica possa aver inquinato la purezza di idee che con essa, invece, non dovrebbero avere nulla a che vedere.
È cosa nota che il fratello torna più volte al fronte del Vietnam per permettere ad Arthur di continuare a giocare. Pacifista, primo nero a giocare a nel Sudafrica dell’apartheid, Arthur saprà come ripagarlo.
Jimbo invece cresce in una delle comunità di bianchi che meno fanno parte della crema elitaria e snob che permette a pochi altri di emergere, a prescindere dal colore della pelle.
Bisogna vincere, dicono mamma Gloria e nonna Bertha, non c’è altra soluzione e non è possibile contare sull’aiuto di nessuno per farlo.
Poche settimane prima del match i due si scontrano pesantemente per un cavillo regolamentare che non permetterebbe a Connors di poter partecipare a tutti i tornei ATP, in quanto fa parte di un’altra organizzazione tennistica parallela e la cosa viene fuori proprio a seguito di una soffiata di Ashe.
Qualche mese prima gli USA, a fine gennaio, andavano incontro a una sconfitta clamorosa contro il Messico in Coppa Davis, proprio mentre Connors, il loro miglior giocatore, portava a casa $100.000 in un match di esibizione a Las Vegas contro Rod Laver.
La cosa non andò giù ad Ashe, il quale dichiarò pubblicamente che Connors non era uno che amava la propria patria, ma solo il denaro e il proprio tornaconto, episodio che originò una denuncia da parte di Jimbo e che aumentò a dismisura le distanze tra i due.
La denuncia venne ritirata dopo la finale di cui vi stiamo per parlare.
La finale a Wimbledon del 1975
Quell’anno Jimmy Connors era praticamente imbattibile.
Aveva appena 22 anni e stava attraversando un periodo di forma strepitoso. Nove anni in meno del suo avversario, perse solo 4 partite su 103.
A quella finale Jimbo giunse senza perdere nemmeno un set e soprattutto dopo aver sconfitto in semifinale Roscoe Tanner in un match che all’epoca il New York Times descrisse come un “massacro”.
I due si presentarono sul centrale di Wimbledon tuffandosi dentro ad un’atmosfera intrisa di significati “altri” come se fossero dentro a un quadro di Michelangelo.
Ashe, per non farsi mancare niente, indossò per l’occasione la “sobria” casacca dei giocatori USA di Davis, seguito da Connors che, al contrario, decise di mettere un maglione di cotone Sergio Tacchini e una bandiera italiana cucita sopra il marchio.
Ci furono addirittura scaramucce sull’ordine di entrata dei due, visto che entrambi volevano uscire per primi e salutare il pubblico a favore di telecamera.
La partita iniziò con una tensione che sapeva d’odio, tanto che nel suo libro “Days of Grace”, Ashe disse che Connors colpiva la palla con una tale forza che “rasentava la vendetta”
Il più anziano tra i due in campo aveva vinto US Open, 1968 e Australian Open, 1970, primo giocatore di colore a trovare il successo in questi due slam, ma è opinione di molti che se avesse dedicato più tempo alla sua carriera e al suo tornaconto, avrebbe vinto molto, molto di più.
La tattica di Ashe
Se ne vogliamo fare un discorso di pura tattica tennistica, quella di Ashe, conosciuto come giocatore aggressivo da fondo campo, che amava mixare azzardo e potenza senza una gran varietà di colpi, necessitava di una maggiore frequenza nei cambi di marcia e, soprattutto, nel modo ci colpire da fondo, visto che era risaputo che più forte avrebbe colpito e più forte la palla gli sarebbe tornata indietro da un Connors in quello stato di grazie.
Quindi slice, rovesci tagliati, palle corte e ancora slice, rovesci tagliati e palle corte. E di nuovo, dal punto al punto tre senza soluzione di continuità.
La morbidezza dei colpi di Ashe sorprese il suo avversario in primis, ma, più in generale, sorprese tutti gli osservatori. Non era il suo stile, fu affascinante vederlo cambiare in modo così repentino ed efficace.
Connors correva come un pazzo, veniva scaraventato da una parte all’altra del campo, chiamato sotto rete e lobbato con frequenza, per un inizio da favola: 6-1 3-0!
Uno spettatore, proprio in quel momento, si alzò e, infrangendo la religiosa etichetta di Wimbledon urlò: “Dai Jimmy, dai!”. Connors, quasi sconsolato, gli rispose fuori dai denti, “Ci sto provando, Cristo, ci sto provando!”.
I cambi di campo
Chiuso con facilità anche il secondo set, Ashe incontrò qualche difficoltà nel terzo e si fece breakare al 12° gioco, perdendo la frazione e provando ad arginare il ritorno di Connors che salì 3-0 anche al quarto.
Ma tutti notarono le reazioni ai cambi di campo: Ashe manteneva la calma, chiudeva gli occhi, respirava come se stesse in meditazione.
Più tardi disse a tutti che ripensava alla tattica da adottare, a ciò che i suoi allenatori gli consigliarono di fare nella serata che precedeva il match.
Riprese così a giocare come aveva fatto per i primi due set e risalì fino al 4-4, per poi chiudere l’incontro da par suo, sorprendendo Connors con nuove stilettate da fondo campo, questa volta decisive. Un nuovo cambio di marcia che tramortì definitivamente Jimbo.
Fu per lui l’apoteosi, alla soglia dei suoi 32 anni, Arthur Ashe divenne il primo uomo di colore a vincere Wimbledon con un perentorio 6-1, 6-1, 5-7, 6-4.
Una delle vittorie più incredibili e iconiche di sempre.