Per la prima volta dal 2006, avremo un tennista statunitense in finale allo US Open. Che ci arrivi Taylor Fritz o Frances Tiafoe, l’interrogativo che ci si pone è se si tratta di un caso o dell’inizio di una rinascita del tennis a stelle e strisce, dopo il periodo più buio della sua storia.
Quando gli americani dominavano lo Slam di casa
Lo US Open ha avuto periodi molto positivi, per i tennisti di casa. Senza scomodare la preistoria con l’era di Donald Budge, Jack Kramer e Pancho Gonzales, dopo i flash dei primi anni ’70 con Arthur Ashe e Stan Smith, a cavallo tra i ’70 e gli ’80 lo US Open era diventato una questione domestica. Infatti, nell’era Open è ancora imbattuto il record di 7 successi statunitensi in fila tra il 1978 e il 1984, quattro di John McEnroe e tre di Jimmy Connors. Poi erano arrivati i favolosi anni ’90, attraversati dalla dominazione di Pete Sampras e dal suo dualismo – tennistico ma anche di stili e personalità – con Andrè Agassi. Al di là di questo, oggi ci interessa particolarmente un dato: nei 17 anni che vanno dal primo successo di Sampras (1990) all’ultima finale di Roddick (2006), solamente in tre occasioni il torneo non ha avuto almeno un americano in finale. Si tratta del 1997 (Rafter-Rusedski), 1998 (Rafter-Philippoussis) e 2004 (Federer-Hewitt). Dopo allora, però, c’è stato il vuoto.
US Open, da Roddick a Fritz-Tiafoe: i 18 anni terribili del tennis statunitense
Con le vittorie di Taylor Fritz su Sascha Zverev e di Frances Tiafoe su Grigor Dimitrov (ritirato nel 4° set per infortunio), abbiamo la matematica certezza di avere un tennista statunitense in finale nel singolare maschile, cosa che non accadeva da ben 18 anni.
L’ultima volta era stato Andy Roddick a qualificarsi per l’ultimo atto di Flushing Meadows, venendo poi sconfitto da Roger Federer 6-2 4-6 7-5 6-1. A-Rod era stato a sua volta l’epigono di una robusta tradizione di campioni, che arrivava al termine dell’epoca di Sampras e Agassi, ma anche di Courier e Chang.
Quindi, dopo il declino di Roddick, a sua volta vincitore di un US Open (2003) e numero 1 del ranking ATP per 13 settimane, il tennis statunitense è entrato in una incredibile crisi di talenti.
Da Fish a Blake, i talenti bruciati
Gli USA hanno prodotto alcune promesse non mantenute, o meteore che sono durate troppo poco, non solo a causa di infortuni. Si pensi a Mardy Fish, maciullato nell’anima dalle aspettative alte. Come ci ha ricordato una puntata della serie Netflix “Untold”, agli US Open 2012 Fish non si presentò all’incontro di ottavi di finale, dove lo attendeva Roger Federer. Un attacco di panico in piena regola, e che forse simboleggia la grande pressione che è gravata per anni sui giovani prospetti statunitensi, vista la pesante eredità che erano chiamati a perpetuare.
Se Fish si era fermato al n.7 del ranking, James Blake era arrivato al n.4, ancora oggi il miglior piazzamento di sempre per un afro-americano, ma senza mai superare i quarti di finale di un torneo del Grande Slam.
Così, per diverso tempo, la bandiera a stelle e strisce è stata rappresentata, nei tornei del Grande Slam e in particolare nello US Open, da ottimi giocatori come “Long John” Isner, Sam Querrey e poco altro.
La generazione persa “per colpa” dei Big 3
La generazione nata negli anni ’90, come è noto, ha avuto difficoltà enormi a non farsi soffocare dall’epoca dei Big 3. Ci sono talenti che, probabilmente, in un’altra epoca avrebbero già almeno uno o due Slam in carniere, e invece sono a zero. Taylor Fritz (nato nel 1997) e Frances Tiafoe (1998) sono due esempi di questa generazione “cancellata” dalla voracità dei tre più grandi tennisti della storia, ma essendo nati a fine decennio hanno ancora qualche chance di acciuffare qualcosa. Questa semifinale, che è la prima in uno Slam per Fritz e la seconda per Tiafoe (dopo US Open 2022), può essere per loro la svolta.
L’ultima semifinale tutta statunitense prima di questa Fritz-Tiafoe era stata quella del 2005 tra Andre Agassi e Robby Ginepri, terminata con la vittoria di Agassi 6-4 5-7 6-3 4-6 6-3.
Il buon lavoro della USTA e di… Madre Natura
Ma questa semifinale tutta yankee dopo 19 anni è frutto del caso, oppure è il prodotto di una buona programmazione? Forse la verità sta davvero nel mezzo, come recita l’antico adagio. Non ci sono dubbi che questa semifinale sia figlia di una edizione particolare, giunta nell’anno olimpico con il temporaneo ritorno alla terra battuta, che probabilmente ha tolto energie a due dei grandi favoriti, Carlos Alcaraz e Novak Djokovic. Del resto, parliamo di un torneo in cui, alla vigilia dei quarti di finale, sono rimaste in corsa solo due delle prime 10 teste di serie (il n.1 Jannik Sinner e il n.5 Daniil Medvedev).
Al netto di ciò, è giusto ricordare che gli USA facevano ormai capolino in semifinale da due anni, nel 2023 con Ben Shelton e nel 2022 con lo stesso Tiafoe, entrambi sconfitti dai futuri vincitori del torneo (Djokovic nel 2023, Alcaraz nel 2022). Accenni di rinascita si erano dunque già avuti.
In questa rinascita un ruolo importante lo gioca il caso, diciamo così. Del resto, sappiamo sulla nostra pelle quanto il tennis italiano sia stato estremamente marginale e depresso per molti anni, finché sono spuntati i Berrettini, i Sinner, i Musetti eccetera.
Accanto all’imprevedibilità del caso, c’è probabilmente anche la USTA che ha imparato da una serie di errori commessi in precedenza e si è limitata a programmare e aspettare. Oggi Taylor Fritz e Frances Tiafoe potremmo definirle due “fioriture tardive”, almeno a livello Slam, ma dietro l’ossatura inizia a essere interessante.
Da Shelton a Blanch, il futuro del tennis USA è in buone mani
Scorrendo la classifica, oggi non abbiamo nessun tennista USA in top 10, ma è davvero una casualità che durerà ancora per poco. Al n.11 abbiamo Taylor Fritz, al n.13 Tommy Paul, al n.16 Frances Tiafoe e al n.17 Ben Shelton. I quattro statunitensi in top 20 sono tutti compresi tra i 21 di Shelton e i 27 di Paul, ma è inevitabile che per il futuro si conti soprattutto sul mancino nativo di Atlanta.
Oltre a Shelton, il tennis americano ha riscoperto le qualità del 23enne Brandon Nakashima, ottimo allo US Open dove ha eliminato Lorenzo Musetti. Nakashima è numero 40, ma il suo posto giusto appare ben più in alto. C’è poi il ventenne Alex Michelsen, che ha sbattuto violentemente su Jannik Sinner al primo turno ma è un altro prospetto (oggi n.43) dal possibile futuro radioso.
Tra i millennials c’è poi Zachary Svajda, ma soprattutto c’è Darwin Blanch. Probabilmente lo avrete scoperto nella scorsa primavera, quando l’organizzazione dell’ATP Masters 1000 Madrid gli concesse una Wild Card, che si risolse in un massacro subito dal pure convalescente Rafa Nadal (6-1 6-0). Oggi Blanch naviga intorno alla novecentesima posizione del ranking ATP, ma è un 2007 e deve ancora compiere 17 anni. Il futuro, anche in questo caso, è ampiamente dalla sua, per le pressioni c’è tempo. E gli USA, forse, hanno imparato che è meglio evitare altri casi come Mardy Fish.
Sinner contro uno yankee in finale?
Se Jannik Sinner dovesse vincere il suo quarto di finale contro Medvedev e poi anche la semifinale con uno fra Draper e de Minaur, la finale lo vedrebbe opposto a un giocatore statunitense. Qualcosa che forse gli ricapiterà in carriera, ma forse no: i big 3 designati del prossimo futuro sono lui, Carlos Alcaraz e Holger Rune, anche se quest’ultimo è incappato in una spirale di negatività che lo ha fatto scendere di rendimento e nel ranking. Talento da top 5 avrebbe senz’altro Ben Shelton, per Nakashima e Michelsen potrebbe essere ancora prematuro, mentre quella che si giocano Fritz e Tiafoe potrebbe essere un’occasione più unica che rara, nelle loro carriere.