Nella storia della pallacanestro professionistica statunitense, non sono pochi i connubi che hanno reso celebri le rispettive franchigie.
Tra questi magici incontri sui campi della NBA, ve ne sono alcuni che hanno dato origine a tutta una serie di vittorie e stagioni regolari clamorose, ma che, stringi stringi, non hanno purtroppo per i loro fans, mai originato un titolo NBA.
Un ritornello entrato nell’immaginario di una nazione
Stockton to Malone!
Una cantilena che ha accompagnato gli appassionati di tutto il mondo per qualcosa come 18 anni, segnatamente dal 1985 al 2003, il periodo in cui John Stockton e Karl Malone fecero le fortune, se così si può dire, degli Utah Jazz.
Il primo è considerato da molti osservatori l’ultimo playmaker puro della storia della NBA e da altri semplicemente il più forte.
Il secondo, col suo fisico e le movenze da ballerino, uno dei centri più forti.
Insieme hanno fatto vedere al mondo intero quanto potesse essere profittevole il pick’n‘ roll, un movimento al quale le difese non erano preparate a rispondere, se effettuato da gente che lo sapeva fare coi crismi della perfezione.
Il pick and roll
I lettori più giovani sanno a menadito cosa sia questo movimento, anche se le varianti tecniche che lo hanno imbastardito, ne hanno deturpato il significato originale.
Ai giorni nostri le squadre che lo giocano di più sono quelle che non hanno un centro di ruolo atipico come ormai “si usa” da anni, per fare un esempio, Rudy Gobert.
Il francese, passato agli onori della cronaca per il poco opportuno gesto in sala stampa che diede il via alle polemiche di inizio Covid e al successivo fermo della NBA, gioca oggi proprio nella città dei mormoni, a Salt Lake City, negli Utah Jazz.
Quel movimento comincia con un blocco portato all’altezza di uno dei due gomiti che si formano sugli angoli della lunetta, blocco al portatore di palla che poi dovrà decidere cosa fare, se penetrare oppure passare la palla al bloccante che nel frattempo avrà usato il proprio corpo, “rollandolo” per liberarsi del difensore e avvicinarsi al canestro.
Gobert è un maestro in questo e gli Utah attuali mostrano sempre uno dei giochi corali più belli della Lega.
Belli adesso come allora
A cavallo tra gli anni 80 e 90, furono sostanzialmente 4 le squadre che provarono a mettere KO Michael Jordan e la dinastia Bulls.
Da prima ci provarono, peraltro con successo nelle prime occasioni, i Detroit Pistons.
Dopo arrivarono i talentuosi Lakers di un Magic Johnson a fine carriera, quindi i New York Knicks di Pat Ewing e infine proprio gli Utah Jazz, sfortunati protagonisti della doppia finale persa a favore dei Bulls per il completamento del secondo “threepeat”.
E proprio quelli erano gli anni del maggior impatto offensivo della coppia Stockton-Malone.
I primi anni per conoscersi
Guardia e centro giocarono la loro prima stagione insieme nel 1985, quando Malone, un anno dopo il suo compagno, venne scelto alla 13ª assoluta dai mormoni.
“Il postino, the mailman”, soprannominato in questo modo per la sua disarmante facilità nel recapitare a canestro ogni pallone che passava nei pressi di quello che oggi viene chiamato “smile”, nasce in una piccola, umilissima e molto religiosa cittadina della Louisiana, Bernice, il 24 luglio del 1963.
La fama di eterno secondo dell’ormai vecchio Karl, è testimoniata, nel momento in cui andiamo online, dalla carica di vice miglior marcatore della storia della NBA con 36.928 punti realizzati, dietro a Jabbar (38.387) e davanti a Lebrone (34.087).
Questo “quasi record” è una specie di costante della carriera di Malone, al quale sfuggì il titolo anche quando si trasferì a Los Angeles, dove coi Lakers, nel 2004, perse la sua terza finale contro i Pistons.
Un anno più anziano, a John Stockton venne riservato un trattamento pari anche per quanto riguardava la gerarchia anagrafica in sede di draft.
Nato nello Stato di Washington, a Spokane, non lontano dalle montagne rocciose il 26 marzo del 1962, non ha mai cambiato squadra, a differenza del suo socio, che lo fece a fine carriera.
Nello Stato dello Utah rimane ancora oggi una sorta di leggenda, una vera e propria bandiera come si direbbe da queste parti.
Come abbiamo scritto in apertura, Stockton è considerato uno dei playmaker più forti di sempre, l’unico che sapeva interpretare il ruolo con una naturalezza disarmante.
Anche il nativo di Spokane mise a referto numeri pazzeschi, ma, a differenza di quelli di Malone, i suoi si sono tradotti in record tuttora imbattuti.
Senza tediare il lettore con tutte le classifiche del caso, basterebbe ricordare che il piccolo Jhon, 185 cm di altezza, detiene quello per il maggior numero di assist in carriera, 15.806 in regular season e 17.645 insieme a quelli distribuiti ai playoff e quello delle palle rubate, 3.603 in totale.
La maledizione dell’anello
Diciotto stagioni, dicevamo, le prime passate a da affinare l’alchimia tecnico-tattica, per poi provare, alla fine del connubio, a dare il difficile assalto al titolo NBA.
I due riuscirono a regalare ai Jazz qualcosa come 5 finali della Western Conference, giocando insieme la bellezza di 1.412 partite di regular season.
Due di quelle finali di Conference regalarono a Utah la possibilità di giocarsi il titolo nell’ultima serie decisiva contro la squadra vincente ad Est, ma questa fu la notizia più brutta, poiché la vincente ad Est vestiva spesso la canotta rossa dei Chicago Bulls.
Michael Jordan, Scottie Pippen, Dennis Rodman, sono i nomi che più sentiamo in questi ultimi giorni grazie anche a “The Last Dance”, il docufilm che gira su Netflix e che racconta l’epopea dei Bulls di quegli anni, incentrata soprattutto sull’ultima vittoria nella stagione 1997/98 ai danni proprio di Utah.
Fu la seconda finale NBA persa consecutivamente da Utah e dal duo Stockton-Malone, una doppia ferita quasi mortale che segnò anche la fine di buona parte della spinta propulsiva di quella magnifica squadra.
E di quel magnifico binomio.