Come è stato possibile che uno spogliatoio letteralmente diviso in due differenti fazioni abbia potuto ottenere il titolo di Campione d’Italia a due anni di distanza dalla promozione in Serie A?
Un quesito di quest’ordine, altrimenti irrisolvibile, trova nella figura di un singolo uomo la sua risposta prima ed ultima: Tommaso Maestrelli.
Quando, oggi, la Lazio scende in campo, prima che le due formazioni si schierino sul terreno dell’Olimpico pronte a darsi battaglia, parte un inno dal titolo: «So’ già du’ ore». La bellezza di questo canto è resa tale non solo dalle parole in esso contenute, ma ancor più dall’unanime voce che, partendo dalla Curva Nord, si diffonde in Tribuna Tevere, poi in Curva Sud, infine in Tribuna Monte Mario. È l’Olimpico tutto a cantarlo. La Lazio scende in campo, l’inno vola come l’aquila Olimpia. Le ultime note sono però le più importanti. L’inconfondibile suono va sfumandosi, fino ad interrompersi del tutto. È lo Stadio Olimpico a concludere l’inno, ormai afono, gridando all’unisono: «Daje Aquilotti nun se po’ sbaja, su c’è er Maestro che ce sta a guardà».
Prologo: La Lazio neopromossa che sfiora lo scudetto
Er Maestro è precisamente Tommaso Maestrelli, l’allenatore della Lazio che nella stagione 73/74 vinse lo Scudetto per la prima volta nella sua storia. Tutto inizia due stagioni prima, quando la Lazio, dalla Serie B, sale in Serie A.
Quella squadra non ha la forza economica delle “grandi” d’Italia – in quegli anni, Juventus e Milan su tutte. Il collettivo che ha raggiunto la promozione è rimasto quasi immutato al passaggio nella serie maggiore del nostro calcio. Alla prima giornata del campionato di Serie A 1972/73, le parole di Maestrelli sono piuttosto eloquenti: «Possiamo e dobbiamo salvarci».
Niente proclami, dunque. Tutt’altro. Ma la Lazio, passato il girone di andata, dimostra a tutta Italia di che pasta è fatta. Il 19 novembre del 1972, dopo un Lazio-Palermo che vede vittoriosi i biancocelesti con un gol del loro bomber numero uno, Giorgio Chinaglia, la Lazio è in testa alla classifica del campionato italiano. Avvenimento mai successo nella sua storia.
A un mese dalla fine del campionato, la Lazio di Maestrelli ospita il Milan del grandissimo Nereo Rocco. Una squadra alle prime armi con il vertice della classifica contro un’altra abituata a quel palcoscenico ormai da diversi decenni. Prima che inizi l’incontro, il leggendario Concetto Lo Bello entra nello spogliatoio delle Aquile, dichiarando senza peli sulla lingua: «A fine partita, voglio veder piangere il Dieci», alludendo in maniera piuttosto esplicita a Rivera.
Il burrascoso rapporto tra Rivera e Lo Bello è un capitolo sinistro quanto affascinante della storia del nostro calcio. Non entriamo nel merito. Rimanga quanto segue: il primo tempo finisce 2-0 per la Lazio, grazie a due reti di Chinaglia – la seconda provocherà la lussazione del pollice al portiere rossonero –, ma la ripresa vede un Milan ruspante capitanato proprio da Gianni Rivera (che accorcia le distanze a inizio secondo tempo). Rocco, stanco del trattamento riservato alla sua stella, è protagonista di un durissimo scontro dialettico con Lo Bello. Quest’ultimo rimane in campo, quello se ne va sotto la doccia.
Il finale è tutto da vivere. Il Milan pareggia 2-2 a pochi minuti dalla fine, ma la rete è annullata dall’arbitro per un fuorigioco che, alle moviole dell’epoca, appare tutto meno che evidente. La partita, dunque, finisce 2-1 per la Lazio. A Roma è festa grande, ma delle due litiganti gode la terza, la Juventus.
È l’ultima giornata del campionato. Situazione in classifica: Juventus 44, Milan 43, Lazio 43. La Lazio è ospite del Napoli, squadra ostica, su un campo più che ostico, ma senza obiettivi; il Milan va a Verona; la Juventus, infine, è ospite della Roma, ben lieta di far passare sul proprio cadavere il nuovo amico bianconero.
Le speranze, per la Lazio, sembrano ridotte al lumicino, ma a fine primo tempo, con il pareggio dei biancocelesti a Napoli e le sconfitte momentanee di Juventus (1-0 per la Roma) e Milan (3-0 per un Verona avvelenato), la situazione sembra girare a favore dei biancocelesti. Nella ripresa, però, cambia tutto.
Giorgio Chinaglia, non potendo fare a meno di notare un’attitudine eccessivamente aggressiva – per non dire spartana – dei padroni di casa, chiede all’allenatore dei Partenopei: «Quanto vuoi?». La risposta è ancor più imbarazzante della domanda: «Giorgio, mi dispiace. Ma siete arrivati secondi». Il Napoli vincerà quella partita, la Juventus rimonterà la Roma (tra primo e secondo tempo il presidente Anzalone aveva fatto un discorsetto ai lupacchiotti…) con le reti di Altafini e Cuccureddu. Il Milan naufragherà a causa del torrente Verona (5-3) e la Vecchia Signora si laureerà campione d’Italia, mantenendo sul petto quello Scudetto che si era conquistata la stagione precedente.
Svolgimento: calcio, pistole e Maestrelli
La Lazio è abbattuta, ma Maestrelli tira su ragazzi e ambiente tutto: «Ce la siamo giocata fino alla fine del campionato», dice, «e questo per noi è un motivo di orgoglio». La stagione 73/74 è senza storia. I ragazzi di Maestrelli entrano in campo con la fame di chi vuole prendersi ciò che è suo. Chinaglia gioca una stagione incredibile, ma non è l’unico.
Insieme al capitano Pino Wilson, Long John divide lo spogliatoio dall’altra estrema fazione, capitanata dal duo Martini-Re Cecconi. Celebri le battaglie al campo di Tor di Quinto, sempre affollato dai tanti curiosi – laziali e non – che vedevano quel gruppo di fuori di testa darci dentro fino all’ultimo secondo della “partitella”.
L’arbitro della contesa l’imparziale Tommaso Maestrelli. Se la squadra di Chinaglia vinceva, tutti a casa a tempo debito; ma se perdeva, fino a quando Long John non segnava il decisivo gol (della vittoria), il campo non poteva essere lasciato neanche per scherzo da nessun giocatore della squadra avversaria. Le partite duravano ore, si andava avanti a oltranza.
Ma quando parliamo di battaglie, dobbiamo sentire questa parola nel suo significato letterale. In campo volavano calcioni, anche a rischio di farsi male e saltare la gara della Domenica. Non era infrequente che molti scontri finissero alle mani tra i contendenti.
Ma questo era solo un riflesso di un gruppo costruito per demolire la retorica della squadra unita. Altri e tanti erano gli esempi che definivano quei giocatori dei veri e propri cavalli pazzi fuori controllo. Quello delle pistole rimane un esempio fulgido. È una storia se vogliamo figlia dei tempi, di un’Italia in cui si respira un’atmosfera pesante e dove difendersi è diventata la priorità. Giovani e ricchi, i ragazzi di Maestrelli maneggiano armi con scellerata disinvoltura. Durante i ritiri pre-partita, in un campo abbandonato dietro l’albergo, s’inscenano sfide come si fosse in un poligono di tiro. La guerra tra le due fazioni dello spogliatoio si sposta allora su chi aveva l’arma più grossa e potente, e non poteva che vincere Chinaglia che un giorno si presentò in ritiro con un fucile Winchester da film western più adatto alla caccia degli elefanti che alla preparazione di una gara di campionato.
Esagerazioni, certo, ma mai episodi irrimediabili, sicuramente però rischiosi o, comunque, al limite. Come quando, racconta Martini, per la pigrizia di alzarsi dal letto d’albergo, le luci venivano spente con un proiettile.
Gli spogliatoi erano divisi e, racconta il portiere Pulici, guai a non rispettare la “linea”. Ma questo stesso gruppo, diviso durante la settimana, più che diviso nemico l’uno dell’altro, quando arrivava la domenica metteva da parte ogni rancore, ogni scaramuccia, qualsivoglia odio, per il bene del collett… pardon; per il bene di Maestrelli.
Pino Wilson lo ricorda sempre quando si parla di quella squadra, senza mezzi termini, con la voce sempre rotta dalla commozione: «Noi giocavamo per Maestrelli. E vincevamo per Maestrelli». Quest’uomo non era come gli altri, questo è evidente. Tenere a bada quel gruppo non era facile, ma per Tommaso Maestrelli era invece naturale. Bastava uno sguardo, alle volte. Bastava una sigaretta tenuta nervosamente spenta tra le labbra o un buffetto ad uno degli adorati gemelli – sempre presenti, i figli gemelli di Maestrelli, Maurizio e Massimo, alle partite della Lazio, negli accesi spogliatoi del pre-gara. Bastava non rompere, o interrompere, quel continuo, violento ma dinamico flusso degli allenamenti per poi parlare, poco e bene, prima, durante e dopo le partite domenicali.
Maestrelli «ha il pregio di parlar poco», dichiara uno dei suoi ragazzi. La squadra macina un calcio aggressivo, prende pochi gol, ne fa tanti. Non è una squadra divertente. O meglio. Non è una squadra spettacolare, ma lo spettacolo è la squadra stessa. 11 leoni. Non ci sono altre parole.
Epilogo: il trionfo del mucchio selvaggio
Il girone di andata si conclude con la Lazio in testa, 3 punti di vantaggio sulla Juventus sua diretta concorrente. Il 17 febbraio del ‘74 si gioca Lazio-Juventus. L’arbitro, il signor Panzino, fischia due rigori per la Vecchia Signora. Il primo è respinto da Pulici, il secondo va in rete. La Lazio vede rosso. E gli artigli dell’aquila trafiggono la Zebra in tre diverse occasioni. Punteggio finale, 3-1 per la Lazio. Roma è in festa.
Ma una parte della capitale non ci sta. Il 31 marzo, in un clima da finale di Coppa del Mondo, si gioca Lazio-Roma. A pochi istanti dall’inizio mister Maestrelli non trova i due gemelli portafortuna. Verrà a sapere che il presidente Lenzini li ha gentilmente accompagnati in tribuna: «Presidente, prima della Lazio vengono i miei figli», risponderà secco il Maestro.
L’inizio di partita è appannaggio della Roma. Poi, l’episodio che cambia la partita. Un cross che arriva da lontano diventa velenoso per il portiere biancoceleste, Felice Pulici, nel momento in cui la palla, sospesa in aria, accelera a causa del vento: Pulici, in realtà, salva il pallone prima che entri in porta, ma l’arbitro viene ingannato dai piedi del portiere biancoceleste, di poco al di là della linea di porta. 1-0 per la Roma.
La Lazio reagisce rabbiosamente. Maestrelli vuole incoscienza. Come se non ce ne fosse già abbastanza, direte voi. Tant’è. Dentro il 19enne D’Amico, che cambia la partita. Prima realizza il gol dell’1-1. Poi si procura il rigore che può dare una fetta di Scudetto alla Lazio. Sul dischetto si presenta Chinaglia. Dalla Sud volano insulti, bucce d’arancia (per rimanere leggeri), acqua, parole inaudite. Chinaglia prende la rincorsa e calcia centrale, bucando la porta giallorossa. 2-1 per la Lazio. I giocatori biancocelesti, temendo il peggio, si rintanano a fine partita negli spogliatoi. Tutti tranne uno. Giorgio Chinaglia è infatti rimasto sul terreno di gioco, ma non si trova. Dov’è? A girare sulla pista dell’Olimpico col braccio rivolto verso la Curva Sud. È grazie a questo episodio che la moglie Connie sarà costretta ad emigrare negli States – Long John la raggiungerà a breve. Chinaglia, per i restanti due mesi, vivrà con quello che lui paragona tranquillamente ad un padre, Tommaso Maestrelli, che lo accudirà come un figlio.
La sfida delle sfide, però, si gioca 14 giorni dopo. Siamo ad aprile e la Lazio ospita il Verona. Il primo tempo si chiude sul 2-1 per gli ospiti. Giornate burrascose, quelle che avevano preceduto l’incontro. Forse era volata qualche parola di troppo. Forse stavolta neanche Maestrelli può tenere a bada quel mucchio selvaggio. E invece no.
L’allenatore biancoceleste, al rientro dei suoi ragazzi negli spogliatoi, decide di precederli tutti, piazzarsi dinnanzi alla porta, chiuderla e, dandogli le spalle, dichiarare senza alcuna remora: «entrate in campo». La Lazio non rientra negli spogliatoi, dunque. Nel momento della massima difficoltà, con una squadra spaccata che si sta inceppando ad un passo dall’obiettivo, Maestrelli ributta letteralmente in campo i suoi, che ora sono lì, sul terreno di gioco con 15 minuti di intervallo da passare.
Non dentro le quattro mura di uno spogliatoio, dove potrebbero volare parole grosse e ceffoni. Ma davanti agli oltre 50.000 dell’Olimpico. Che prima si chiedono casa accade. Ma poi iniziano ad incitare i propri giocatori, intuendo l’astuta mossa psicologica di Maestrelli. I giocatori assistono a questo tumultuoso crescendo sugli spalti, con un fuoco dentro che divampa ogni minuto sempre più caldo.
Quando il Verona rientra, non crede a quello che vede. I giocatori della Lazio li attendono sul terreno di gioco, con una rabbia in corpo da far spavento. I volti dei giocatori della Lazio sono cambiati, e i piedi ne sono una diretta testimonianza. In soli sette minuti la Lazio segna tre gol e ribalta la partita. Finisce 4-2. «Ci hanno fatto arrabbiare, e non dovevano» dirà D’Amico tutte le volte che verrà interrogato su quella gara.
Il 12 maggio è il grande giorno. La Lazio ospita il Foggia, che deve salvarsi. Non si salverà. La Lazio vince grazie ad un rigore di Chinaglia, freddo come fosse al campetto con i suoi compagni di squadra. Anzi, molto più freddo, visto che lì spesso e volentieri gli partono i nervi. 50.000 laziali entrano in campo, esaltati ed esultanti. La gioia è incontenibile. Un solo uomo rimane in panchina, incredulo, con le mani nei capelli: è Tommaso Maestrelli. La Lazio è campione d’Italia.