C’è una parte della narrazione strappalacrime che ha dimenticato del tutto (o quasi) le vite dei clochard, in questo tragico periodo post-lockdown, in piena emergenza sanitaria.
Nella povertà sempre più diffusa del nostro Paese, cresce la mestizia di quelle esistenze che vivono insieme al tempo, provando a dimenticare il ricordo di un pasto con gli amici, o in famiglia.
Tra queste esistenze, deluse e spezzate dall’esistenza stessa, c’è anche quella di Maurizio Schillaci, noto ai più come il cugino di Totò.
Cresciuto nello stesso quartiere di Palermo di Salvatore, come quest’ultimo Maurizio sa cosa significa dare del tu al pallone. Lo gestisce con cura, lo nasconde dalla pressione degli avversari, siano essi macchine, sassolini, clacson o bulli figli di mafiosi.
Lanciato da Zeman, rovinato dalla grande città
Fino alla chiamata col Licata, su richiesta di quello che è rimasto un suo fedele amico di viaggio: Zdenek Zeman, il Maestro boemo.
Insieme a Zeman, l’altro Schillaci segna una quantità di gol esagerata nel ruolo di attaccante (22 reti in 66 partite). Il suo talento, così almeno si dice, è superiore persino a quello del cugino, che nel frattempo lo chiama a gran voce dal Messina.
Mentre Totò fa impazzire i tifosi giallorossi, Maurizio riceve l’importante chiamata della Lazio; decide così che è il momento giusto per fare le valigie, partire per la città eterna e incassare quei sei zeri che sul conto bancario possono sempre far molto comodo.
E che invece saranno la sua rovina.
Nato sotto il talento di una buona stella, anch’egli figlio di pescatori come Totò, l’altro Schillaci fallisce alla Lazio, soprattutto a causa di un brutto infortunio al tendine, curato approssimativamente dai medici biancocelesti.
Egli si fida però dei responsi dell’alta cura della società laziale, e quando va alla Juve Stabia niente sembra poterlo davvero ostacolare.
L’infortunio e la caduta
Invece quel tendine continua a fare malissimo. Solo al Messina gli diranno che quel tendine non solo non è mai guarito, ma è addirittura peggiorato a causa delle cattive cure.
Nessuno può restituire quegli anni a Maurizio, che alla Juve Stabia segna ma con discontinuità, si separa dalla moglie e perde gli amici come petali di rose al vento, quasi senza accorgersene.
Qualcosa di oscuro annebbia la sua esistenza. Non è il ricordo dei fasti di Roma, delle estati romane spese e concluse, delle 38 (sic!) auto cambiate sotto contratto con la SS Lazio – pur essendo in Serie B, le cifre offerte dai biancocelesti erano comunque consistenti –, che lo tormenta.
È quel maledetto infortunio. È quella maledetta onestà che lo porta, ai tempi del Licata, a rifiutare una mazzetta per perdere una partita; cosa che, chiesto consigli al maestro Zeman, era stata rimandata al mittente in men che non si dica.
È, soprattutto, l’incontro con la droga alla Juve Stabia.
Maurizio ha ormai 33 anni, un momento che nella vita di un uomo coincide col passaggio da un’esistenza ad un’altra. Prima la cocaina ne ottura narici e neuroni, scorrendo nel sangue come il talento ormai perduto per le strade di Castellammare.
Poi l’eroina. Come in un incubo, che riconosciamo essere tale e che, al fine di chiuderne la sceneggiatura, cerchiamo in tutti i modi di far cessare risvegliandoci a forza, Maurizio capisce di aver esagerato e prova a destarsi.
Provare a ripartire da capo, da Palermo
Quando si risveglia si trova però per le festose, ma maestose e opprimenti, strade di Palermo.
Oggi, la Vucciria è la sua mensa. Dopo aver racimolato qui un pasto, lì un altro, cerca un letto caldo tra i vagoni dei treni, che ne scandiscono le ore della giornata.
Per lui, ormai, il tempo non esiste più. Compagni e amici di un tempo lo hanno dimenticato, il mondo pure. E pensare che ai tempi della Juve Stabia lo chiamavano il malato immaginario.
Come il commediante di Moliere, maestro del teatro d’ogni tempo. Ed è proprio dietro il Teatro Massimo, in pieno centro a Palemmo, che potreste riconoscere un uomo gentile, affettuoso, dimenticato, eppure vivo.
È Maurizio Schillaci, che vive di elemosina. E che guarda i ragazzini giocare col pallone, con gli stessi occhi sognanti di sempre.