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Il ritiro dell’Uruguay inizia e si conclude con una calma trascendentale. D’altra parte, già il nome che la Nazionale Celeste porta orgogliosamente in giro per il mondo lascia intendere la natura divina di quella squadra. Il 16 luglio del 1950 è difficile, tuttavia, stabilire con certezza da che parte fosse Dio.

Più probabilmente, il Signore ha lasciato fare al demonio come con Giobbe. Tra gli oltre 205.000 tifosi (i paganti ufficiali sono, a onor di cronaca, 175.000) si nasconde anche Dio, senz’altro. Silenzioso, calmo, impassibile spettatore di una partita che può portargli alcune vite, facendone sbocciare delle altre.

Se la Celeste, dunque, fatte valigie, docce, barba e gel, parte alla volta del Maracana, nel cuore pulsante di Rio de Janeiro, con l’andatura di un branco di leoni, cauto e tanto più spaventoso dall’esterno, tutto al contrario si deve dire del Brasile.

La pressione brasiliana, la tranquillità uruguagia

La Seleçao sceglie il Paradiso in terra: Jardim Da Barra è uno dei pochi luoghi al mondo dove sia sempre estate. Di un’estate, si badi bene, non torrida, ma ventilata, dolce. Le palme, cura dei Gesuiti che, come per altri posti del pianeta, hanno qui condotto Dio per mano, arieggiano dolcemente i 40 giorni che precedono quell’evento così denso di significato: la finale della Coppa del Mondo.

Eppure, tanto più quella calma invoca pace dall’esterno, quanto più s’agita, nei cuori dei giocatori verdeoro, un fuoco infernale. La mattina del 16 luglio, la squadra si alza alla buon’ora, e il ct Flavio Costa conduce i suoi ragazzi al centro di Rio de Janeiro, allo stadio del Vasco de Gama, l’Estádio São Januário. Qui, la formazione capitana da Augusto, generale dai piedi d’oro, accoglie tutta l’élite, per così dire, del vasto territorio brasiliano. Politici, giornalisti, curiosi e persino qualche tifoso infiltrato, sgomitano per scambiare due chiacchiere, a turno, con quegli esseri quasi divini. Una pressione così, su una squadra di calcio, non esiste. 175.000 paganti, per una sola partita, neanche. Solo Woodstock ’69, poi, riuscirà a replicare, almeno nei numeri, quella voce collettiva. Ma dovranno passare 19 anni. E non si tratterà di calcio.

Qui di calcistico, in ballo, c’è ben poco. Persino il filtro burocratico delle cravatte non serve a “pulire” l’immagine della politica brasiliana, unita ai giocatori e ai “semplici” tifosi da un’attesa che fa grondare di sudore le fronti madide dei presenti allo stadio. Si canta quasi per non pensare alla partita. Il pullman dei ragazzi guidati da Lopez Fontana è arrivato intorno alle 12. La partita è alle 15. Lo spogliatoio sembra immune ai controlli, e qualche petardo penetra nell’anticamera della Celeste. Nessun ferito. Fa impressione vedere Schubert El Mono Gambetta riposare come un bimbo, a bordo del proprio materasso. Due ore di siesta prima della festa, tanto per intenderci. La forza dell’Uruguay è in questi “dettagli”.

La disfatta più famosa della storia del calcio

Alle 14 il Brasile entra in campo. Il pullman verdeoro è accorso in un incidente molto pericoloso intorno alle 12.30. Nessun ferito. I ragazzi del ct Costa sono come inghiottiti dal calore della propria gente; la classica sgambata d’ingresso in campo è avvertita dall’11 titolare come un passo in più verso l’inferno. L’atmosfera è elettrica. Obdulio Varela, il capitano dell’Uruguay, è il rovescio esatto del sentimento avversario: è guidato da un coro di angeli, e la voce stessa del Signore vibra le sue corde vocali facendogli pronunciare, con lo sguardo di chi guida un’armata alla vittoria:

Los de afuera, son de Palo!

«Quelli là fuori, dice Varela, non esistono». Il discorso politico che precede l’inizio delle ostilità fa il paio con la superba follia dei media brasiliani nei giorni precedenti la partita: «Qui, fuori dallo stadio, per le strade, non ci sono i serpenti». Ed è vero, perché sono in campo i serpenti, ma hanno il favore di Dio dalla loro parte. Sono invincibili, oggi. Obdulio Varela arresta il volo della monetina lanciata in aria da George Reader, 53enne arbitro inglese. Stupito, ma col sorriso di chi ha già capito cosa stia succedendo, il direttore di gara invoca con lo sguardo i due capitani. Risponde, ovviamente, quello con la divisa celeste: «Faccia scegliere a loro palla o campo. Tanto vinciamo noi». Tutti ridono, tutti meno che Augusto, come atterrito da quelle parole divine.

Il resto è storia. E la storia si chiama Maracanazo o – per dirla alla brasiliana – Maracanaço. Dopo il vantaggio iniziale siglato da Friaça al 47’, il Brasile si scioglie. Schiaffino al 66’ e Ghiggia al 79’ firmano la rimonta più celebre, e tragica, nella storia del calcio.

«Vedo Julio Pérez liberarsi di un avversario in dribbling. Scatto sulla destra quando lui mi lancia in un corridoio libero. Il mio angolo di penetrazione era abbastanza basso rispetto alla linea di fondo: quando vedo il terzino avvicinarsi a me, decido di tirare. Barbosa, per prevenire un eventuale cross, si sposta leggermente sulla propria destra e lascia uno spazio sufficiente tra sé e il palo. Chiudo gli occhi, batto con tutta l’energia che ho in corpo, e quando li riapro vedo il pallone in rete. In quel momento, diventiamo campioni del mondo».

Alcides Ghiggia

Una decina di infarti, svariati tumulti per le strade e un sentimento di angoscia collettiva caratterizzeranno le interminabili giornate successive a quell’incontro. L’Uruguay, dal canto suo, se ne torna in patria con un’altra Coppa del Mondo, dopo quella del 1930. Augusto, il già citato capitano brasiliano, sognerà per vent’anni il (non) gol di testa su cross di Zizinho. A 70 anni di distanza, quella partita è ancora la più celebre della storia del calcio. Lasciamo dunque ai protagonisti di quel dramma l’ultima parola.

URUGUAY 4-3-3


P Máspoli
LIB M. González
DC Tejera
MD Gambetta
MS Rodríguez Andrade
CM Varela (C)
CD Pérez
CS Schiaffino
AD Ghiggia
AC Míguez
AS Morán

BRASILE 3-2-2-3


P Barbosa
DS Bigode
DC Juvenal
DD Augusto (C)
MS Danilo
MD Bauer
CS Jair
CD Zizinho
AS Chico
AC Ademir
AD Friaça