A metà degli anni Novanta, l’Europa calcistica era immersa nella ricerca ossessiva di nuovi referenti. Poco prima c’erano state la Quinta del Buitre al Bernabeu, le lezioni tattiche di Sacchi e il suo Milan trasformista. Dopo tre anni in cui il romanzo del pallone aveva parlato di Maradona a Napoli, tutto s’era sgonfiato. Senza dimenticare la caduta della Stella Rossa, ultimo boom del calcio europeo barra orientale. Oltre chiaramente al progetto rivoluzionario di Johan Cruyff a Barcellona, che mostrava già i suoi primi sintomi di esaurimento.
Dall’apoteosi blaugrana a Wembley, in quella dolce notte nel 1992, la Champions era stata condivisa da soli 3 club. Per primo il Marsiglia, poi si è seduto sul trono il nuovo Milan di Capello e finalmente poté toccarla con mano l’effervescente generazione d’acciaio di Van Gaal ad Amsterdam. Non che non meritassero lo stesso riconoscimento o i successi avvenuti, ma ogni squadra dava la sensazione che s’aprisse un ciclo di trionfatori poco trascendentali. Autori di opere così puntuali quanto irripetibili. In ogni caso, non vi era un modello che s’imponesse come esempio massimo per raggiungere il successo.
A Torino
Torino si teneva lontana da questo periodo di transizione malinconica. Michel Platini, l’ultimo baluardo sportivo della città e protagonista della prima (e unica) Coppa Campioni vinta dai bianconeri nel 1985, aveva già appeso le scarpette al chiodo e iniziava ad aspirare a ruoli da diplomatico nella federazione francese, con il trono del primo cittadino Uefa nel mirino. Nel mentre, Zinedine Zidane, che presto o tardi sarebbe andato a prendere il posto di Le Roi, era ancora una pepita dolce che circolava con classe tra gli stadi della Ligue1. In questo ricorso storico, la Juve arrancava con una formazione senza grandi nomi e piena di buoni calciatori. Nessuno, però, che attirasse la grande attenzione mediatica di cui disperatamente necessitava.
In quella stessa estate, dettaglio importante, si erano aperte le porte d’addio all’iconico allenatore di sempre, Giovanni Trapattoni. Qualche mese dopo, chi prese la stessa strada fu Roberto Baggio. Si respirava aria di cambiamento nel grembo della Juventus. Che preferiva staccarsi dai vecchi, illustri nomi e cimentarsi in un nuovo progetto basato su un vecchio dogma dell’Avvocato: l’austerità come bandiera. Ecco, le chiavi di tutto quello erano state affidate a ‘tale’ Marcello Lippi. Tecnico carismatico, amante dei sigari, di pochi sorrisi, occhi azzurri come gli inglesi.
Sapete come lo chiamavano? Il Paul Newman di Viareggio. Un nome che gli venne affibbiato dalla stampa francese. Era sconosciuto all’elite, ma era lì per evidenti meriti sportivi. Nel suo curriculum c’erano club modesti come la Sampdoria, il Cesena, l’Atalanta, il Napoli. E Lippi si presentava al Delle Alpi su richiesta espressa di Luciano Moggi.
Due periodi
Tutto ciò che accadde nei due corsi fu qualcosa di molto difficile da prevedere. Non c’era possibilità di chiedere tempo, più tempo, per adattarsi o avere pazienza: la Juve non ragiona a lungo termine. Tant’è: l’esperimento ebbe effetto immediato, e la squadra ebbe subito successo in Italia, quindi in Europa. Molti analisti concordano sul fatto che l’undici tipo utilizzato dal tecnico nel suo secondo periodo (2001-2004), nome per nome, era molto più forte di quella che guidò durante i primi tempi. Pensateci: Buffon, Thuram, Zambrotta, Nedved, Davids, Trezeguet, Zalayeta. L’instancabile Del Piero.
Quello sì, era materiale di altissimo livello, persone con cui una ‘guerra’ la vinci facilmente. Ma non fu sufficiente per alzarne un’altra, di Coppa Campioni. Accadde invece con meno attesa e meno figurine, e accadde nel periodo che andò dal 1994 al 1996, a quella Juventus che si stazionò con valore assoluto ai primi piani europei. Accadde all’Olimpico di Roma. Il primo grande successo di un Lippi che oggi se n’è andato in Cina, a replicare emozioni ridotte in scala.
Con la Champions
In Serie A, l’impatto della Juventus di Lippi non si fece aspettare. Nel corso inaugurale del progetto, annata 1994-95, si ruppe la carestia che si trascinava il club da un decennio, iniziando a recuperare il torneo domestico. Qualcosa che, con eccezione dell’anno successivo, si ripeterà nel 1996 e nel 1997. Torino, quasi per caso, tornò a ergersi come il centro nevralgico del calcio italiano, in cui giocavano i migliori del periodo. Ma quella squadra non evocava nulla dall’altro modo. Risultava poco piacevole, eccessivamente trattenuta agli occhi degli spettatori. Ma forse era quella la più grande caratteristica. Andarci coperti, avere pochi desideri. Con un modulo decisamente ermetico, senza margine tattico per l’improvvisazione.
Tutto quello organizzato in tempo record. Con Peruzzi tra i pali, il gran motore del gruppo girava attorno agli incrollabili obblighi di uomini come Ferrara, Torricelli, Vierchowod, Pessotto. In mezzo al campo, Deschamps dava ordini e Antonio Conte era a fargli da spalla, spazzando via tutto e tutti, sfruttando una spinta contagiosa. Gli stranieri Sousa e Jugovic si giocavano il terzo posto della linea di mezzo. Davanti: Vialli e Ravanelli erano tradizione e astuzia, e un giovanissimo Del Piero iniziava a inserirsi con maestria nell’indispensabile figura del 10.
Quest’ingranaggio ben armato permise alla Vecchia Signora di andare a occupare le tappe, a superarle tutte lungo quest’edizione del 1995. Facendo molto rumore. Andando a battere il Madrid nei quarti, superando il Nantes nelle semifinali, chiudendo i conti con l’Ajax in finale, seppur ai calci di rigore. Mister Lippi si accese un sigaro dei suoi al termine della partita dell’Olimpico, mentre osservava in secondo piano i festeggiamenti dei suoi ragazzi, con lo sguardo di chi si sente per la prima volta così potente.
A un passo
Fu il massimo, il nirvana. Fu l’apoteosi di una storia incredibile. Che portò alla Juve uno scudetto insperato, e ancora altri due, e poi una Coppa Italia. La prima fase s’interruppe tuttavia bruscamente: nel 1999, febbraio, la Juve era ormai fuori da qualsiasi gioco. Dopo una sconfitta interna col Parma (2-4), è lo stesso tecnico a rassegnare le proprie dimissioni. Lo sostituirà Ancelotti: un’altra storia decisamente singolare.
Certi amori fanno dei giri immensi, ma con Lippi e la Juve c’è da aspettare poco. Nell’estate del 2001, il viareggino torna a Torino con un progetto importante: rivincerla. Come nel ’94, il progetto tattico è da rifare: arrivano Buffon, Thuram, Nedved. Proprio sul calciatore ceco, l’allenatore ha un’intuizione fondamentale: lo sposta da mezzala a trequartista, e così riparte la caccia all’Inter. Lo scudetto numero ventisei è un thriller chiamato ‘5 maggio’. Dodici mesi dopo, altro scudetto, ma soprattutto la finale di Champions League.
A Old Trafford, c’è il Milan dell’odiato Ancelotti. Partita bloccata, difficile, piena di tensione. Si decide solo ai rigori, e lì vincono i rossoneri. Nel 2003-2004 arriva l’addio definitivo: saranno 405 partite, 13 trofei e una storia pazzesca. Lippi lascia il grande amore Juve per il più importante di tutti: quello per la Nazionale. Il 2006 era ancora tutto da vivere.