“Alla fine, Pinochet applaudirà Panatta”. Come fosse una forzatura abbellita in qualche modo, come se alla base resistesse una sensazione di obbligo e non di piacere. Insano, parlando di sport. Comunque, c’è da dire che nessuno rese quel gesto meglio di Julian Garcia Candau, giornalista de ‘El Paìs’ che raccontò la definitiva scelta della federazione azzurra sulla Coppa Davis del 1976 in Cile. Sì, Pinochet applaudirà Panatta. Una concessione che non si fermerà solo alla sfilata iniziale: ma che sarà crescendo rossiniano di un torneo poi fattosi incredibile storia.
In campo era scesa anche la politica. Il deputato Lo Bello, l’ex arbitro di calcio con più partite fischiate – record che resiste ancora oggi -, si era scagliato contro la possibilità che pure un solo azzurro si ‘prostrasse’ alla dittatura cilena. Non tollerava che i suoi atleti calcassero luoghi di prigionia e di libertà violate. L’Estadio Nacional di Santiago era divenuto un carcere a cielo aperto per migliaia di cileni esattamente dopo il golpe di Pinochet, avvenuto 3 anni prima del torneo. I generali avevano rovesciato il governo popolare di Salvador Allende, e dopo aver sparato contro il palazzo presidenziale dove quest’ultimo si era nascosto, partirono con gli arresti di massa contro migliaia di antifascisti.
Torture, violenze, uccisioni. Da lì nacque il termine ‘desaparesidos’, e cioè scomparsi. Volati via. Sotto i colpi di un governo che con la forza imponeva tutta un’altra visione del mondo.
Parliamo di tennis
Pinochet aveva organizzato la Coppa Davis anche per pulire la sua immagine a livello globale. Si sarebbe giocata proprio all’Estadio Nacional, tre anni dopo il primo terribile 11 settembre che la storia abbia mai partorito. Dal 17 al 19 dicembre del 1976, anche l’Italia sportiva alla fine decise di partire e di provare a vincere un torneo assolutamente nelle sue corde. Del resto, Panatta veniva da un’annata meravigliosa: prima di disputare quella finale, aveva vinto gli Internazionali d’Italia e ancor prima il Roland Garros a Parigi. Era in un ottimo stato di forma, mentalmente una spanna superiore a tutti gli altri.
Santiago del Cile si preparò al meglio: per una volta, il capo politico voleva far parlare solo il campo, salvo poi ergersi a garante di un sistema che agli occhi del mondo doveva apparire efficiente. E poco importava, all’apparenza, il rifiuto dei grandi del tennis riguardo alla semifinale di Coppa tra l’Urss e il Cile, saltata chiaramente per motivi politici: i dirigenti sovietici rifiutarono di inviare i loro giocatori nella capitale cilena, facendo un primo atto formale di resistenza. E se l’Italia dovette sconfiggere l’Australia di Newcombe, i padroni di casa in finale vi andarono di diritto.
Il caso azzurro scoppiò appena Panatta vinse l’ultimo game, proprio contro Newcombe. Tantissimi organismi sportivi di base esercitarono pressioni forti sui gruppi di sinistra, dunque sul Coni. Panatta, Barazzutti, Zugarelli e Bertolucci erano finiti nell’occhio del ciclone: non dovevano partecipare alla finale di Coppa Davis, non dovevano incrociare gli occhi di Pinochet, non dovevano credere a quella maschera di ordine e felicità che il dittatore andava professando per garantire uno Stato di grazia.
La vittoria
In Italia, la questione era serissima. Fu anche costituito un Comitato per il boicottaggio di Italia-Cile, a capo vi era Ignazio Delogu, che sull’America Latina aveva fondato tutta la sua fortuna (e conoscenza). Si sviluppò una forza politica che denunciò l’uso strumentale che si faceva dello sport, ma la risposta della Federazione tennis italiana – e poi anche quella internazionale – fu che il gioco e la cosa pubblica sarebbero rimaste sostanzialmente due componenti diverse. Che mai avrebbero avuto modo di mischiarsi. Ingenuità.
Andreotti, allora Presidente del Consiglio, provò a temporeggiare. Craxi sosteneva l’importanza della vittoria, sì, ma della vittoria della democrazia. Fu il Coni a decidere, sotto la guida del capitano Pietrangeli e di una figura pragmatica come quella di Berlinguer. La Nazionale va a Santiago, dove viene accolta con un calore mai visto prima. In Italia, invece, partono le proteste. Fortissime.
Arriva sempre il campo, a un certo punto. Come nella vita, quand’è il momento di dimostrare qualcosa. La situazione in patria non condizionò le prestazioni dei ragazzi italiani: Barazzutti vince la prima, Panatta abbatte Cornejo in soli tre set. Il doppio? Adriano e Paolo lo fanno a modo loro: indossano una maglia scarlatta, un vero e proprio atto di sfida a Pinochet. All’inizio soffrono (perdendo il primo set, oltre a tre match point), ma in tre ore riescono a costruire una vittoria che resta incastrata negli annali. Fillol risponde a rete, la storia è scritta. La prima Davis italiana, nonostante tutto, fu bellissima.