Un detto a Roma popolare recita: Roma ad agosto non è un bel posto. Per i romani, certo. Ma non per i turisti. O per chi, semplicemente, ama godersi la città senza dover sgomitare a destra e a manca. Roma, ad agosto, è infatti semi-deserta. Il rumore di qualche macchina e l’eco d’eternità che ne scandisce le giornate è un fenomeno degno di nota.
Essere Falcao ovvero classe e mentalità
Il 10 agosto del 1980 Roma si risveglia quasi per magia. Mentre metà della città è al mare a prendere il sole, Falcao atterra all’aeroporto di Fiumicino. Seimila tifosi lo accolgono. Sono, con ogni probabilità, gli unici romani rimasti in città quel giorno. Falcao è ovviamente sorpreso dall’accoglienza. E almeno per due ragioni: in primis, mai si sarebbe aspettato di rivivere in Italia il calore del Brasile, la sua terra; mentre guarda quei tifosi portargli fiori e sciarpe da mettere al collo, si chiede: «Ma questa gente mi ha mai visto giocare?». La domanda è retorica.
Paulo Roberto Falcao viene da Porto Alegre. All’Internacional è una stella, è titolare della nazionale brasiliana – una delle più forti squadre di sempre nella storia del calcio. È un ragazzo d’un eleganza unica. Si presenta col vestito, le scarpe lucide, e poche parole. È un Lord inglese coi piedi brasiliani. Ora, l’Inghilterra ha creato il gioco, e il Brasile è il luogo dove meglio s’è giocato. Non è difficile, dunque, con questi due presupposti, capire che tipo di giocatore fosse Falcao.
Il brasiliano si accorge fin da subito di essere in un ambiente particolare. Non c’è qui la mentalità che caratterizza una squadra forte ma, proprio al contrario, un brusio a metà tra la terra e il cielo, di quelli che Dante avrebbe cantato apprestandosi ad entrare nel girone degli Ignavi. La Roma, per dirla in breve, non è una squadra pronta a vincere – e non vince uno Scudetto da ormai troppo tempo.
Questo porta, tra le altre cose, Paulo Roberto Falcao. Al di là delle indiscusse qualità tecniche, egli è carismatico. È un brasiliano atipico, potremmo dire. Sì, perché è concentrato sull’obiettivo: portare la Roma a vincere di nuovo. In pochi lo capiscono. Da lui si aspettano dribbling funambolici, tacchi, punte, ballate. L’unico a comprenderlo fin da subito è Il Barone, Nils Liedholm. Dopo la prima partita fuori casa col Como, lo porta dinnanzi al gruppo e suona la carica con quell’eleganza che lo contraddistingue, accomunandolo fin da subito al centrocampista brasiliano: «Paulo oggi ha preso tre palloni. Ne deve prendere 400».
Studioso Universitario, Laureato, Falcao è poeta anche in campo. Le sue giocate mettono in discussione il Sublime di Kant. Falcao ha gli occhi di dietro, dichiara Ciccio Graziani. È vero. Il 26 ottobre del 1980 la Roma ne fa 4 all’Inter, a San Siro, lanciando un messaggio chiarissimo. Per la prima volta dopo tredici anni, la Roma chiude il girone di andata in testa alla classifica.
C’è aria di trionfo, ma prima c’è l’ostacolo. La Juventus. È il 10 maggio del 1981 ed è la famosa partita del Go’ de Turone (gol di Turone). Ricostruzione rapida: dopo essere rimasta in dieci uomini per l’espulsione di Furino, con la Roma ad un punto, la Juventus capisce d’essersi messa in un mare di guai. A poco dalla fine, il mancino vellutato di Bruno Conti pesca la testa di Pruzzo che la rimette in mezzo. Quasi al livello del dischetto si presentano Falcao e Turone: è quest’ultimo ad anticipare il brasiliano e a siglare, di testa, il gol del vantaggio giallorosso. Verrà annullato senza tante spiegazioni. Falcao è furioso ma ancora più intento a scrivere la Storia – quella che non puoi fermare. La Juventus vincerà lo Scudetto; per la Roma è solo questione di tempo.
Dal mondiale al sogno scudetto
L’anno dopo è quello del Mondiale. Falcao ha per il Brasile un amore che, come tutti i giocatori brasiliani, supera senza eguali quello per la propria squadra di club. È il 1982 ed è, purtroppo per Falcao e fortunatamente per noi, l’anno degli Azzurri.
Dopo aver superato con tre pareggi la prima fase a gironi, la partita per accedere alle semifinali vede di fronte all’Italia di Bearzot un Brasile semplicemente mostruoso.
Oltre a Falcao ci sono almeno Junior, Socrates, Zico, Cerezo – che arriverà alla corte di Liedholm l’anno dopo. Una squadra formidabile. Ma l’Italia è baciata dagli dèi. Due volte sotto, il Brasile riprende la Nazionale Azzurra, prima col gol di Socrates – su clamorosa intuizione di Zico – e poi proprio con Roberto Falcao, con un sinistro poderoso che il povero Zoff non riesce quasi a veder partire. L’esultanza di Falcao è liberatoria. È il suo Brasile, vuole e può condurlo al trionfo. Niente da fare, però. Tra lui e la gloria eterna c’è un ragazzo di nome Paolo e di cognome Rossi. Che ne fa tre.
L’Italia è in finale e per Falcao è un lutto difficile da superare. Se solo non ci fosse la Roma, e i romanisti, ad attenderlo a braccia aperte, per trasformare in realtà quello che fino a quel momento era solo un sogno.
Falcao trasforma la Roma, di nuovo. Durante Roma – Inter, nel dicembre dell’82, Bordon, portiere nerazzurro, prende la bizzarra abitudine di aspettare i calci piazzati avversari a qualche metro dalla propria linea di porta, spostato sulla sinistra. Falcao lo vede e lo beffa con un gol da punizione che lascia tutti senza fiato. Roma avanti e sogno Scudetto più vicino.
Quella giallorossa è una formazione che adesso crede davvero al traguardo. Ha una squadra solida, preparata, motivata, e un direttore d’orchestra che è semplicemente divino. Ha la 5 sulle spalle e si muove come un 10.
6 marzo 1983. La Roma si presenta allo scontro con la Juventus convinta di poter riscattare il broglio di qualche mese prima.
L’intuizione di Liedholm è d’immediata efficacia. Quel 5 che sembra un 10 viene trasformato, per l’occasione, in un atipico numero 9. Non fatevi illusioni. Qui non c’è spazio né tempo per il falso nueve. Falcao è tutto meno che un “finto” centravanti. Il suo gol di testa è lì a provarlo; stacco poderoso su Bonini e gol del vantaggio. È il gol Scudetto, tutti pensano. Ma la Juventus ha Platini. Punizione al limite e gol fantastico (da vedere e rivedere). Poi, al 90’, la beffa. Su un lancio lungo spizzato da un giocatore bianconero, Platini raccoglie la sfera buttandola in mezzo dalla linea di fondo campo: testa di Brio e gol del vantaggio juventino. Incredibile all’Olimpico: Roma 1-2 Juventus.
Nella città è panico. Serve una scossa. Serve qualcuno che dia la carica, l’ultima sommossa prima dell’invasione. Falcao, sapendo d’essere invitato alla trasmissione Mixer ormai da tempo, decide che quello è il momento di presentarsi dinnanzi alle telecamere. Le sue parole sono inequivocabili: «La Juventus avrà pure fame di vittoria. Ma noi di più». E, dopo aver alimentato le polemiche sull’episodio del secondo gol – ricordandosi anche di quel controverso e maledetto gol di Turone di due anni prima –, si porta sulle spalle la grinta di un popolo intero.
A Pisa, la settimana dopo, si presentano in 6000. 6000 tifosi, come 6000 lo avevano accolto a Fiumicino. E sarà proprio Falcao, con un colpo di testa poderoso su cross di Chierico, a consegnare i tre punti alla Roma in terra toscana. La Roma ha a quel punto nuovamente il vento in poppa.
E nonostante la Juventus non molli (il 3-3 di rimonta sull’Inter alla penultima giornata è segno di grande orgoglio personale e grande forza mentale), sarà la Roma a laurearsi Campione d’Italia a Genova. Basta un pareggio contro i rossoblù per assicurarsi un titolo che la gente aspettava da tantissimi anni. 5 sulle spalle, 10 nei piedi, 9 all’occorrenza, ma manca un numero, l’8. Falcao è infatti adesso, per tutti, l’Ottavo Re di Roma.
L’amaro epilogo
Roma ad agosto è, per metonimia, Roma d’estate. Ecco, che si diceva all’inizio? Non è un bel posto. E anche per Falcao iniziano le prime difficoltà. Legate, paradosso dei paradossi, proprio al bel posto e alla bella vita che è Roma per lui, adesso, Re indiscusso della città. Festini, paparazzi ovunque, donne. E una paternità controversa. La Roma in estate gli porta il connazionale e amico Cerezo, aggiungendo alla rosa anche Ciccio Graziani. La squadra è fortissima ma il suo numero 5 non è più quello di sempre.
La Roma si concentrerà quell’anno sulla Coppa dei Campioni, lasciando che il fascino delle stelle europee ne condizioni volentieri il cammino in terra nazionale. I giallorossi fanno fuori senza troppi problemi Goteborg, CSKA Mosca e Dinamo Berlino. Si presentano alla sfida col Dundee United con le migliori aspettative ma in Scozia finisce 2-0.
Il ritorno è di fuoco. Pruzzo è la fiamma che lo anima. Doppietta da urlo del centravanti giallorosso e rigore procurato, poi trasformato dalla sapienza di Agostino Di Bartolomei. Finisce 3-0. È una delle rimonte più incredibili della storia. E Sebino Nela lo suggella con uno scatto e un dito medio rivolto all’allenatore scozzese che rimarrà per sempre nella memoria e della competizione e dei tifosi romanisti.
La finale è, come noto, drammatica. La Roma riesce a riprendere il gol dei Reds grazie a Pruzzo. La partita finisce 1-1. Per la cronaca, si gioca proprio all’Olimpico di Roma. Una pressione senza eguali si addensa sui giocatori giallorossi, che giocano male e temono la tragedia sportiva, perdere la finale della Coppa dei Campioni di fronte al proprio pubblico. Falcao, alle prese con i problemi al ginocchio che lo avevano costretto a saltare la partita col Dundee, decide di non presentarsi sul dischetto.
È il tradimento del Re di Roma. Qual è la causa di tale gesto? Il trauma infantile (quattro rigori sbagliati su cinque in una partita con le giovanili dell’Internacional)? Il ginocchio? Senz’altro. Ma forse, più semplicemente, paura. Lì Falcao, anti-gladiatore, finisce la sua avventura con la Roma. I giallorossi perdono la lotteria dei rigori e la finale della Coppa dei Campioni. Ma Falcao non verrà mai dimenticato. Nel bene e nel male, lui rimarrà per sempre l’Ottavo Re di Roma.