I love this game. Patrice Evra ha sempre avuto questo motto in testa. Ma non c’entra quanto abbia guadagnato, tutto ciò che ha vissuto, la storia che si porta dietro e che l’ha reso un’icona in tutto il mondo. No, quella di Evra è una storia di salvezza. Il calcio non gli ha solo dato tutto, l’ha soprattutto tolto dal nulla. Che son due cose, situazioni, emozioni differenti. Ecco perché ama il gioco, perché è il gioco ad aver dato a Patrice la possibilità di essere Evra.
A dare uno sguardo al curriculum di ‘zio Pat’, c’è da restarci imbarazzati e sbalorditi. Soprattutto considerato il luogo del primo passo: Dakar, Senegal. Con un padre diplomatico della Guinea e sua madre proveniente da Capo Verde. Pat cresce però in Francia, nella periferia sud di Parigi. Un amico lo introduce giovanissimo nel Club Omnisports des Ulis, la squadra della cittadina in cui viveva. “Questo è il nuovo Romario“, disse ai dirigenti. Ecco: con un ruolo “leggermente” diverso, ma per quanto vinto non ci è andato poi così lontano.
La prima volta
C’è da dire che Evra nasce anche attaccante. Bassino, sì. Ma estremamente veloce, poi una grandissima tecnica. Un metro e settantatré di muscoli e potenza. Qualcuno lo avvisa che di fare il centravanti no, non sembra proprio il caso. Specialmente in Francia dove il calcio sta diventando estremamente fisico.
Ed è questo, il problema che si presenta ad ogni nuovo provino, con gli scout che lo vanno a visionare e poi lo scartano. Evra, da ragazzino a ragazzo, non ha ancora tracciato un percorso verso il professionismo: l’accademia di Clairefontaine non lo considera, né lo fanno i settori giovanili dei grandi club. S’interessa il Psg: qualche allenamento nel centro sportivo dei parigini, poi nulla. Ancora scartato.
Non s’arrende, Patrice. Non può: è un lottatore di natura e allora corre veloce a Torino. Il club granata lo invita a provare nelle giovanili: ha bisogno di un giocatore per la Primavera, e le cose sarebbero andate pure bene se non fosse stato per la sua voglia di giocare. Dal Piemonte fece un volo lungo tutta l’Italia: finì a Marsala, in Sicilia, campionato Serie C1.
Voleva diventare professionista a tutti i costi e gli parve una buona idea. Anche per lo stipendio offertogli, che per un ragazzo di 17 anni, vissuto non esattamente nel lusso, non era certo un fattore da sottovalutare.
Quei mesi siciliani
“Quando sono arrivato in Sicilia ero un ragazzino di 17 anni e mi sono sentito in famiglia. A Marsala ho i ricordi più belli”. Pensate: il debutto nel 1998 coincide con la Champions dello United di Ferguson, squadra che poi inevitabilmente cambierà il suo destino. Ecco, sempre a proposito di destini per sempre modificati, è in Serie C che viene spostato sull’ala sinistra. Alla fine, sui campi impolverati della terza categoria italiana, disputa una stagione da 24 presenze e 3 gol. I siciliani si salvano ai playoff.
“A Manchester ho vinto tutto, ma quando sono arrivato in Sicilia ero un ragazzino di 17 anni e mi sono sentito in famiglia. E come una famiglia sono i miei agenti, che ho incontrato a Monza. Avevo fatto un provino nel Toro e mi volevano tenere, ma c’era un osservatore del Marsala, che mi ha chiesto se avessi voluto provare a fare il salto nel calcio professionistico e mi sono tuffato”.
E chissà quante volte l’ha benedetto, quel tuffo, quell’atto di coraggio. Quando firmò per la Juventus disse che essere tornato non era certo una rivincita, anzi era la dimostrazione della volontà di ringraziare il Paese che gli aveva aperto le porte quando aveva 17 anni.
Che storia
Chicca finale: in quella stagione, un pezzo della storia di Evra venne scritto quasi inconsapevolmente. Era l’otto novembre del 1998, nona giornata del girone B della C1. Marsala contro Palermo, derby infuocato. I padroni di casa erano partiti alla grande, poi si erano spenti. Quasi a fuoco lento. I rosanero invece volevano salire subito di categoria.
C’è Evra, ovviamente. Ma dall’altra parte c’è Fabio Paratici, il direttore sportivo che ha riportato Patrice in Italia nel 2014, ai bianconeri. Fu il primo incontro tra i due, che si ritrovarono anni dopo in vesti decisamente diverse. Almeno per quanto riguarda l’attuale Chief Officer juventino.
Incredibile, ma vero, entrambi partirono dalla panchina: Evra entrò in campo soltanto nella ripresa, disputando un’ottima prestazione. Per Paratici – all’epoca aveva 26 anni, si ritirò a 31 anni dopo aver girovagato tra Serie B e Serie C -, invece, 90 minuti interamente in panchina. Da spettatore. O meglio: da osservatore.
Che poi è stato il ruolo con cui ha iniziato ad entrare nell’elite del calcio. Chissà cos’avrà pensato di quel ragazzino francese che fece ammattire i compagni. Anzi, non c’è certamente bisogno che lo dica: l’ha acquistato, per poco più di un milione, dopo campionati d’Inghilterra e Champions League. Patrice Evra, da Marsala. Patrice, il ragazzino povero che chiedeva soldi in strada per mangiare. Partito dalla Sicilia per conquistare il mondo intero.