Roma ha un rapporto particolare con le sue squadre di calcio: Roma è una città passionale, capace di amare alla follia, ma come spesso accade con gli amori folli, quando finiscono, finiscono male, talvolta addirittura in tragedia.
In tempi recentissimi abbiamo visto le differenti parabole degli ultimi capitani della parte giallorossa della città, bandiere romane e romaniste come Totti, De Rossi e Florenzi, che hanno chiuso la loro esperienza romana in maniera turbolenta e inquieta.
Ma nessuna storia può raccontare meglio quanto questa passione può sconvolgere l’anima di una persona, come la triste parabola di Agostino Di Bartolomei, il capitano del secondo scudetto giallorosso, morto suicida a soli 39 anni.
Un campione schivo e riservato
Di Bartolomei nasce a Roma, nel quartiere di Tor Marancia, l’8 aprile 1966 e cresce nella fede giallorossa. Romanista sin da quando era in fasce, cresce nell’OMI, una società satellite della Roma, e già a 13 anni suscita l’interesse di un club come il Milan.
L’idea di trasferirsi nel capoluogo lombardo però non lo convince, e preferisce restare nell’ambito della capitale, riuscendo ad affermarsi con il tempo nelle giovanili della Roma. Milano però è una città che è scritta nel suo destino, ed è proprio a San Siro, contro l’Inter, che fa il suo esordio in maglia giallorossa, il 22 aprile 1973.
L’anno successivo, alla prima giornata di campionato, segna il suo primo gol contro il Bologna. In tre anni questo ragazzo, mediano dal piede buono e dall’ottima visione di gioco, forte di un tiro potentissimo e preciso ma che paga qualche cosa in termini di atletismo, inizia a collezionare presenze in prima squadra. La sua crescita viene ulteriormente aiutata da un prestito in Serie B al Lanerossi Vicenza nella stagione 75/76, dove può giocare una stagione da titolare e guadagnarsi la conferma nella rosa romanista dalla stagione successiva.
Dalla Rometta allo scudetto giallorosso
Tornato a Roma, nonostante il suo carattere cupo e taciturno, si afferma in pochi anni come uno dei leader dello spogliatoio, arrivando negli anni ad indossare i gradi di capitano. Ma Roma, soprattutto in quegli anni di piombo, è una città in cui spesso la passione rischia di diventare follia. Agostino nei primi anni diventa vittima di minacce e intimidazioni di una parte della tifoseria, che non lo vuole vedere in campo, al punto che per proteggere sé stesso e la famiglia si procura una pistola, che diventa una sua compagna inseparabile.
In quegli anni la Roma però cresce come squadra, passando dall’essere la “Rometta” fino a diventare una squadra nel 1980 vince la Coppa Italia, in una finale decisa ai calci di rigore contro il Torino. In quell’occasione, Agostino sbaglia il proprio rigore, un errore decisamente non da lui che lo distrugge moralmente, anche se grazie all’errore decisivo del granata Ciccio Graziani i giallorossi riescono comunque a sollevare la Coppa.
Dopo il bis in Coppa Italia l’anno successivo, nel campionato 81/82 la Roma, con un gruppo di giocatori di primissimo piano come Conti, Falcao e Pruzzo arriva a giocarsi uno scudetto che manca da 40 anni. In un tesissimo match contro la Juventus all’Olimpico il titolo sfugge solo per l’inspiegabile annullamento del gol di Turone che ancora oggi anima le polemiche tra bianconeri e giallorossi.
La sua proverbiale lentezza però spesso lo mette in difficolta in fase di recupero palla. Il Barone Niels Liedholm decide di sfruttare la sua intelligenza tattica e le sue doti tecniche in un altro ruolo, arretrandolo nel ruolo di libero, a fianco del velocissimo stopper Vierchowod.
Dopo un primo periodo di assestamento, Agostino diventa il perfetto traduttore dei dettami tecnici del mister svedese sul campo. Nel campionato 82/83 la Roma può contare sul miglior giocatore dei Mondiali, quel Bruno Conti che sollevò la Coppa a Madrid nello stesso giorno in cui Agostino, a Roma, abbracciava il neonato figlio Luca.
Introverso e taciturno, Agostino riesce a trascinare la Roma, grazie anche ai gol garantiti dal suo tiro esplosivo, in un’esaltante cavalcata contro la Juventus di Platini. Dopo 41 anni, la Roma può nuovamente fregiarsi del titolo di Campione d’Italia. Agostino Di Bartolomei diventa il simbolo di una squadra, di buona parte della città che è riuscita a strappare lo scudetto dalle maglie delle squadre del Nord e ha riportato i colori della Capitale alla gloria.
La maledetta finale di Coppa Dei Campioni all’Olimpico
Nella stagione successiva, la UEFA assegna la finale di Coppa dei Campioni allo Stadio Olimpico di Roma. Nell’ambiente giallorosso la cosa viene vista come un auspicio, e in città si sparge la convinzione di poter alzare la coppa dalle grandi orecchie nello stadio di casa.
Di Bartolomei e compagni sono implacabili in coppa: eliminano Göteborg, CSKA Sofia e Dinamo Berlino, prima di arrivare a giocare la semifinale in Scozia contro il Dundee United e rimediare una brutta sconfitta per 2-0. La prospettiva della finale casalinga sembra svanire, ma il ritorno, giocato il 25 aprile 1984 in un Olimpico eccezionalmente aperto il pomeriggio invece che la sera e gremito in ogni ordine di posto, vede i giallorossi giocare una partita perfetta, con Roberto Pruzzo che segna 2 gol e si guadagna il rigore che può valere la qualificazione. Invece che batterlo in prima persona, cede l’incombenza al suo capitano, ed è Di Bartolomei che appone il sigillo dal dischetto che vale un’eroica qualificazione.
Lungo il Tevere è il delirio, il 30 maggio 1984 arriverà il Liverpool a giocarsi il titolo di Campione d’Europa. Ma in una città come Roma la passione a volte si trasforma in pressione insostenibile. Il ritiro prima della finale è interminabile, le voci sull’addio di Liedholm, destinazione Milan, si rincorrono sempre più insistenti e la tensione diventa sempre più palpabile.
La finale vede la Roma inizialmente in balia del Liverpool che passa in vantaggio, ma grazie a Conti e a Pruzzo riesce ad agguantare il pareggio. La partita si trascina ai rigori e in questa situazione la pressione psicologica finisce per schiacciare alcuni giocatori.
Pruzzo e Cerezo, rigoristi abituali, sono usciti per infortunio. Per sostituirli si fanno avanti Conti e Graziani, due che rigoristi non erano, ma gli occhi di tutti, compresi quelli di Di Bartolomei, sono rivolti verso Paolo Roberto Falcao, l’ottavo Re di Roma. Il brasiliano è il leader tecnico e la stella della squadra, ma non si fa avanti, adducendo i problemi al ginocchio come ragione per non tirare il rigore.
È il momento in cui si rompe qualcosa nel gruppo. Il “tradimento” di Falcao suscita delusione e mina il morale di molti. Di Bartolomei si prende la responsabilità di battere il primo rigore, che permette alla Roma di andare in vantaggio dopo il primo errore del Liverpool. Ma ironia del destino è il tiro di Ciccio Graziani, il cui errore dal dischetto aveva permesso alla Roma di alzare la Coppa Italia 4 anni prima, a stamparsi sulla traversa e a trasformare il sogno romanista in un incubo.
Roma si ammanta di un silenzio incredulo e sofferente e l’atmosfera che pervade la città si amplifica nell’anima di Agostino. La squadra si ricompatta quanto meno per vincere, poco meno di un mese dopo, la finale di Coppa Italia contro il Verona.
Per Di Bartolomei è l’occasione di salutare alzando un trofeo e la squadra della sua città dopo 15 anni di militanza: nella stagione successiva l’arrivo di Sven Goran Eriksson sulla panchina giallorossa lo costringe a cambiare aria e decide di seguire il suo mentore Nils Liedholm a Milano, sponda rossonera, in quella città che aveva rifiutato da bambino e che l’ha visto esordire in serie A.
Milano, Cesena e Salerno, con Roma ormai lontana
A Milano Di Bartolomei arriva in un momento di passaggio, prima che la rivoluzione di Berlusconi porti la squadra rossonera ai vertici del calcio mondiale. Agostino soffre per il distacco da Roma, eventualità che non pensava si sarebbe mai verificata nella sua vita.
Quando gioca contro la Roma a San Siro segna il gol decisivo per la vittoria rossonera e si lascia andare ad un’esultanza che sa di rivincita e riscatto, ma che viene vissuta dalla curva giallorossa come un tradimento imperdonabile.
Al ritorno, all’Olimpico, l’accoglienza che viene riservata a Di Bartolomei è crudele, e Agostino ne soffre al punto che arriva a litigare pesantemente con Graziani in campo, dopo un fallo compiuto nei confronti dell’amico Conti.
Dopo tre anni a Milano, da cui va via agli albori del Milan di Sacchi, e una parentesi a Cesena, decide di tornare a casa, ma non la sua casa, quella Roma a cui non si sente più di appartenere.
Si stabilisce nel paese di origine della moglie Nunzia, Castellabate, sulla costa dei Cilento, e decide di giocare nella Salernitana, all’epoca in Serie C.
Nonostante il suo nome e il suo palmares, nella prima stagione ha difficoltà ad ambientarsi e fa parecchia panchina, ma nella stagione successiva si impone come regista della squadra granata, nel ruolo che gli aveva fatto guadagnare la maglia giallorossa da ragazzino.
Con la fascia da capitano al braccio, guida la Salernitana ad una promozione in Serie B che mancava da 23 anni. Nel giorno della festa per la promozione, Agostino Di Bartolomei annunciò il suo ritiro dal calcio giocato.
Dopo 17 anni da professionista, di cui 11 con la maglia della Roma, 1 Scudetto, 3 Coppe Italia e quella maledetta finale di Coppa Campioni persa, Agostino Di Bartolomei appende gli scarpini al chiodo e inizia una nuova fase della sua vita.
La tragica conclusione di una passione insostenibile
Agostino resta a Castellabate, dove investe qualche soldo in un’agenzia di assicurazioni ma soprattutto apre una scuola calcio, con il sogno di condividere il suo pensiero, il suo modo di vedere il calcio e la vita. Il sogno si scontra però con una realtà dura e ingrata.
Gli investimenti non fruttano, la politica, e forse anche la camorra, si mettono di traverso e Agostino non riesce ad avere i finanziamenti per costruire quel centro sportivo che doveva essere il fulcro del suo progetto. Nel frattempo la Roma ha cambiato proprietà, ma sulle sponde del Tevere nessuno si ricorda di lui e gli offre ruoli in quella società che per lui rappresenta ancora tutto.
Quella Roma che lui ha portato alle soglie di un paradiso trasformatosi ben presto in un inferno, quella società in cui è entrato da bambino e ne è uscito da uomo, sembra averlo dimenticato.
Quando un amore è così travolgente e totalizzante come quello che Roma prova nei confronti dei suoi eroi, la sua assenza può diventare lacerante e far trasformare in breve tempo la nostalgia in tormento.
Il 30 maggio 1994, esattamente 10 anni dopo quella maledetta finale di Coppa Campioni, Agostino Di Bartolomei afferra quella pistola che conserva ancora, che aveva comprato per proteggersi da quei “tifosi” che lo minacciavano da ragazzino, e si spara un colpo al cuore.
Improvvisamente Roma è costretta a ricordare e a rendere omaggio al suo capitano coraggioso e taciturno, riservato e orgoglioso al punto di tormentarsi e arrivare al suicidio in una sorta di esilio lontano dalla città che amava e da cui si è sentito tradito, travolto da una passione diventata insostenibile.