Fin dal suo arrivo al Milan nell’estate del 2003, Kaká aveva rivoluzionato il ruolo del trequartista e l’immagine tipica del brasiliano tutto joga bonito. Kaká jogava muito, come direbbero in portoghese, ma non si lasciava distrarre dall’occhio scintillante delle telecamere: il suo gioco era concreto, pulito, la più alta manifestazione di quel detto cruyffiano per cui «giocare semplice è la cosa più difficile».
Un gol speciale in uno stadio speciale
Dopo 5’ di gioco, Cristiano Ronaldo ha già portato in vantaggio i Red Devils, spinti da un pubblico tutt’altro che british. L’Old Trafford è una bolgia e l’avvio dei padroni di casa mette i brividi. Ma il Milan non si fa intimorire da quello spettacolo nello spettacolo, e Ricardo Kaká guida la riscossa dei rossoneri. Dopo 22’ il brasiliano riceve in area un pallone che sembra perso, defilato sulla sinistra, e che invece il fuoriclasse dell’attacco rossonero riesce a trasformare in gol con un tiro mancino angolatissimo e imprendibile per Van der Saar. A questo punto, il Milan sente di poter far male al proprio avversario, ferito da un gol improvviso.
A capirlo è soprattutto Kaká, che è a dir poco ispirato quella sera.
Minuto 37. Dida lancia un pallone lunghissimo nella trequarti avversaria, dove Kaká è circondato però da due maglie rosse: quella di Brown, terzino destro, e di Heinze, più spostato verso il centro.
Kaká ingaggia il primo duello con Brown, e con una spallata riesce a portarsi avanti il pallone di testa. Accanto a Kaká c’è adesso Heinze, che è vicinissimo al brasiliano e lo segue come un’ombra. Il pallone sembra perso, ma Kaká, con un pallonetto di esterno destro a rientrare in direzione del limite dell’area di rigore avversaria, supera in un primo momento il difensore dello United.
Il pallone rimbalza ambiguamente sulla linea dell’area di rigore, Kaká è leggermente avanti ad Heinze ma Evra è già arrivato a chiudere ogni possibile varco alla giocata del brasiliano, che sembra spacciato. Sembra, possibile: parole atee, che ad un credente come Kaká scivolano addosso in un istante.
La giocata di Kaká è tanto spericolata quanto geniale.
Il brasiliano, capendo in una frazione di secondo di essere chiuso, decide di autolanciarsi colpendo leggermente il pallone di testa nell’unico buco lasciato in mezzo ai due corpi di Heinze ed Evra.
Kaká colpisce il pallone e i due giocatori dello United si scontrano goffamente. Qui interviene un dettaglio interessante: se guardate il volto di Heinze in seguito allo scontro con Evra, i suoi occhi non seguono l’azione, ma Kaká.
La sua giocata è così incredibile da destare meraviglia anche agli occhi di chi ci ha appena rimesso. Kakà si trova così a tu-per-tu con Van der Saar, che lo aspetta in piedi finché può, ma che viene trafitto dal destro angolato, preciso, imparabile, del fuoriclasse brasiliano. Che esulta portando le mani al cielo e sorridendo in direzione dei compagni di squadra. Quello che è appena accaduto è un mezzo miracolo. Il secondo nella vita di Kaká, il primo che gli occhi del mondo possano testimoniare.
Un giocatore speciale in una squadra speciale
Con il Milan Kaká non aveva ancora vinto la Champions League, nonostante nella finale di Istanbul del 2005 fosse stato uno dei migliori in campo.
Il 2007 per i rossoneri fu un anno difficile. Lo scandalo calciopoli, che aveva coinvolto la società di Berlusconi, costerà 8 punti di penalizzazione ai rossoneri ma quella squadra, allenata da Ancelotti, rimane una delle più forti nella storia del calcio. Il nucleo della sua forza è proprio Ricardo Kaká, che vive la sua miglior stagione in carriera – condita a fine anno dal giusto riconoscimento del Pallone d’Oro.
2006/07, l’annata che vedrà i rossoneri trionfare in finale contro il Liverpool 2-1 ad Atene, vendicando così la tragica sfida di due anni prima. Il Milan giocava col 4-3-1-2, ma più spesso col 4-3-2-1, il famoso albero di Natale di Carletto Ancelotti.
In porta Dida, difesa a quattro composta da Maldini e Nesta al centro e Jankulovski e Cafù/Oddo sulla destra, a centrocampo Gattuso e Ambrosini a dar manforte al Maestro Andrea Pirlo, in attacco Seedorf e Kaká alle spalle di Inzaghi/Gilardino.
Una squadra fortissima già dai nomi: pensate quindi a quanto forte fosse Kaká quell’anno. Il brasiliano segnerà 8 gol, realizzando 7 assist, in Serie A, ma è la Champions la competizione nella quale si supera: 10 reti e 3 assist, un dominio tecnico sovrannaturale.
D’altra parte per Kaká la fede non è un afflato ma una necessità. Da quando, piccolo, si tuffò in piscina picchiando però violentemente la testa sul suo fondo. Kaká, in quell’occasione, si ruppe la sesta vertebra della schiena, ma miracolosamente non rimase paralizzato.
I belong to Jesus, riproporrà in tutte le salse dal mondiale nippo-coreano del 2002 – vinto con la nazionale brasiliana – alla finale di Atene del 2007, piegato al centro del campo con entrambe le mani indirizzate al cielo.
Kaká è un uomo di fede, ma è anche la testimonianza carnale di come il divino possa incontrarsi con i mortali su un campo di calcio.