Nell’estate del suo trasferimento all’Inter Romelu Lukaku, con quel genuino entusiasmo che lo contraddistingue, ha lanciato il suo primo segnale riguardo al suo imminente arrivo a Milano attraverso i social, commentando con entusiasmo un post di Adriano Leite Ribeiro che ripercorreva le gesta dell’attaccante brasiliano con la maglia nerazzurra. E una volta approdato ad Appiano Gentile, il centravanti belga ha dichiarato che Adriano era uno dei suoi idoli da bambino e uno di quei giocatori a cui si ispira. Il brasiliano, per tutta risposta, lo ha ringraziato di cuore e gli ha predetto che sarebbe diventato ancora più forte. Entrambi cresciuti nella povertà, entrambi giganti dall’indole bonaria, entrambi centravanti inarrestabili.
Sei mesi più tardi, i tifosi dell’Inter strabuzzano gli occhi quando Lukaku compie delle prodezze, come il tiro potentissimo che ha addirittura lesionato il polso di Meret prima di finire in porta in Napoli-Inter, o la cavalcata inarrestabile per tutto il campo contro il Cagliari conclusa con un tiro a fil di palo, fin troppo simile ad un gol strepitoso di Adriano contro l’Udinese, che sembrano ricalcare quelle che faceva quasi 20 anni il ragazzo venuto dalle favelas di Rio De Janeiro, ma allo stesso tempo non possono nascondere un pizzico di malinconia e la speranza che la carriera di Lukaku continui in maniera diversa da quella di Adriano, uno dei più grandi talenti sprecati del calcio mondiale.
La triste parabola di Adriano, tra talento e depressione
Adriano Leite Ribeiro nasce il 17 febbraio 1982 in una delle favelas più povere di Rio De Janeiro, Vila Cruzeiro, e come tanti bambini che appartengono a quella realtà il calcio è non solo un gioco, ma anche il sogno di una vita migliore. Inizia a giocare come terzino nelle giovanili del Flamengo, grazie ai sacrifici della sua famiglia, anche dopo che il padre Almir, fattorino, viene colpito accidentalmente da un proiettile alla testa esplodo durante una rissa a cui era totalmente estraneo. Sopravvive, ma dovrà convivere con quel corpo estraneo conficcato nella testa per tutto il resto della vita.
Quando Adriano ha 15 anni il Flamengo lo sta per lasciare a casa, ma l’allenatore Carlos Alberto Almeida Junior vede qualcosa in quel terzino mediocre e lo sposta al centro dell’attacco. Come centravanti, quel ragazzino dal fisico imponente comincia a segnare gol a ripetizione, guadagnandosi un esordio in nazionale a soli 18 anni e laureandosi capocannoniere del Mondiale Under 20 con la Seleçao nell’estate del 2001. Dopo quell’exploit, il Flamengo lo cede all’Inter per ingaggiare il centrocampista Vampeta, enorme bidone che a Milano ricordano solo perché con la sua cessione sono arrivati due giocatori come il francese Dalmat e, appunto, Adriano.
L’ascesa al potere dell’Imperatore
Il biglietto da visita di Adriano è da incorniciare: in un’amichevole estiva contro il Real Madrid, bloccata sullo 0-0, entra e nel finale tira una punizione impressionante per potenza e precisione che si insacca alle spalle di Iker Casillas lasciando il Santiago Bernabeu ammutolito e stupefatto.
Dopo un gol alla 3ª giornata di campionato contro il Venezia, però, le chance diventano sempre meno frequenti nello stellare attacco nerazzurro e quindi decide di andare a cercare spazio in una Fiorentina che lotta contro la retrocessione e l’imminente fallimento. I 6 gol in 15 partite non salvano i Viola, ma mettono in luce il giovane attaccante che l’anno successivo passa al Parma, ceduto in comproprietà.
In Emilia Adriano si ferma un anno e mezzo, formando una coppia con Adrian Mutu che ai tifosi parmigiani fa tornare in mente i fasti di Chiesa e Crespo: 26 gol in 45 partite per il brasiliano, prima che l’Inter lo riporti a casa il 21 gennaio 2004, versando più di 23 milioni nella casse del Parma per riacquistare la metà di un cartellino ceduta per poco più di 14 milioni.
Nei successivi 2 anni in maglia nerazzurra Adriano diventa l’Imperatore: strapotere fisico, velocità impressionante, senso del gol, tecnica. Per molti era il candidato ideale per il Pallone d’Oro, e doveva essere la punta di diamante di un Brasile che con lui, Ronaldo, Ronaldinho e Kakà avrebbe dovuto sbancare i Mondiali del 2006.
La depressione, l’alcool e la caduta dal paradiso
Ma l’ascesa di quello che era l’astro nascente del calcio mondiale diventa nel giro di qualche mese un crollo. Nell’agosto del 2004 il padre Almir muore, e per Adriano inizia a palesarsi un male di vivere che nei mesi successivi sarebbe solo peggiorato.
Si lascia andare a serate folli tra i locali milanesi, diventa in breve tempo schiavo dell’alcool, nonostante all’Inter il presidente Moratti faccia di tutto per aiutarlo, facendo arrivare la sua famiglia dal Brasile e cercando in tutte le maniere di coprire le follie dell’Imperatore con la stampa.
Nel giro di 2 anni la depressione e la dipendenza dall’alcool hanno la meglio: Adriano si presenta ubriaco agli allenamenti, dorme negli spogliatoi e la forma fisica, un tempo scultorea, evapora come il Grand Marnier in un B-52.
All’inizio del 2008 torna in Brasile, in prestito al San Paolo, dove ritrovando l’aria di casa, e seguito da psicologi, sembra recuperare la forma, ma il ritorno a Milano si rivela deleterio, e ad aprile 2009 fa perdere le sue tracce per un periodo dopo una partita giocata con la Nazionale in Brasile. Per l’Inter la misura è colma e rescinde il contratto con quello che pochi anni prima era il suo diamante più splendente.
Il triste declino di un ex campione
Gli anni successivi della carriera di Adriano saranno caratterizzati da cadute e brevi rinascite, contratti sempre più brevi con varie squadre: Flamengo, con cui vince un campionato e il titolo di capocannoniere, Roma, esperienza durata solo qualche mese e costellata da infortuni dovuti ad una forma fisica precaria, Corinthians, dove viene ricordato per essere sorpreso in discoteca a sfilarsi lo stivaletto ortopedico che indossava in seguito alla rottura del tendine di Achille, ma riesce comunque a vincere il campionato, per poi tornare brevemente al Flamengo, quindi Atletico Paranaense e Miami United, collezionando sempre meno presenze a causa di una forma fisica imbarazzante, varie disavventure con la giustizia e le continue ricadute nell’alcool, ritirandosi quindi a soli 34 anni.
Oggi fa l’attore a tempo perso e lavora come Ambassador nel settore digitale di Adidas. Nel 2016, dopo il suo ritiro, ha fatto ritorno a San Siro per salutare i suoi vecchi tifosi, che gli hanno tributato cori e striscioni lasciandolo visibilmente commosso, carico di lacrime di rimpianto per quella che poteva essere una splendida favola calcistica e si è tramutata velocemente in un incubo sportivo.
Romelu Lukaku, il riscatto a suon di gol
Anche Romelu Lukaku ha conosciuto la povertà da bambino: nonostante il padre fosse stato un calciatore professionista, originario della Repubblica Democratica del Congo (all’epoca Zaire), dopo la nascita di Romelu la famiglia ha affrontato periodi molto difficili, con la madre diabetica e costretta a fare la collaboratrice domestica ed il padre che fallisce tra i professionisti e gioca in quinta divisione.
A 6 anni Romelu promette a sua madre, che faticava a procurare il cibo tutti i giorni e a pagare le bollette, che non appena fosse stato possibile sarebbe diventato un calciatore professionista e avrebbe pensato lui a tutto. Chiese a suo padre quale fosse l’età minima per firmare un contratto da professionista: la risposta fu 16 anni.
Appena 10 anni più tardi, dopo tutta la trafila delle scuole calcio tra Rupel Boom, Wintam e Lierse, milita nelle giovanili dell’Anderlecht e dopo aver scommesso con il suo allenatore che avrebbe segnato 25 gol entro dicembre (traguardo raggiunto in novembre) firma il suo primo contratto al compimento dei 16 anni. 11 giorni dopo, il 24 maggio 2009, esordisce con la maglia bianco malva nella finale di ritorno dei play-off per assegnare il titolo belga, persa contro lo Standard Liegi.
Nelle successive due stagioni diventa il più giovane marcatore di sempre della Pro League e colleziona 97 presenze e 41 gol con l’Anderlecht, che gli valgono l’acquisto da parte del Chelsea che lo gira in prestito prima al West Bromwich Albion (17 gol in 38 presenze) e quindi all’Everton che dopo la prima stagione lo riscatta: in quattro annate con i Toffees, Romelu mette a segno 87 gol in 166 presenze.
Quindi passa al Manchester United dove segna 42 reti in 96 apparizioni, per poi diventare l’acquisto più costoso della storia dell’Inter (75 milioni) ed essere finalmente allenato da Antonio Conte. L’ex commissario tecnico azzurro lo cercava da 6 anni, fin da quando i due si incrociarono in un’amichevole tra Belgio e Italia nel 2015 e capirono che il gioco dell’uno era fatto per le caratteristiche dell’altro.
Lukaku e Adriano: due treni in corsa che puntano dritti verso la porta
Antonio Conte infatti non ha risparmiato critiche al collega José Mourinho quando vedeva giocare Lukaku nel Manchester United, spalle alla porta come fulcro centrale del gioco d’attacco. Nel sistema di gioco di Conte Lukaku ha un ruolo più mobile, in cui prende campo, si abbassa o si allarga a destra favorendo l’inserimento dei compagni, ma soprattutto può scatenare il suo fisico esplosivo, proprio come faceva Adriano, producendosi in devastanti progressioni palla al piede.
Quando prende velocità è inarrestabile, un gigante di più di 90 chili lanciato verso la porta avversaria con la palla attaccata al piede. Così come per Adriano, non sono tanto gli strappi e le accelerazioni a fargli superare gli avversari, ma la velocità di base, aiutata dalle grandi falcate, unita ad un fisico che permette una protezione del pallone totale. Il piede non è quello del classico centravanti granatiere: sia Lukaku che Adriano quando ricevono palla con le spalle alla porta tendono ad allargarsi e rigiocare la palla trovando spesso un compagno che invece punta l’area per vie centrali, come è Lautaro Martinez per il belga e come erano Vieri o Martins per il brasiliano.
Inoltre, entrambi sono cannonieri implacabili. Non solo per il fiuto del gol, ma per l’eccellente tecnica di tiro: liberi di tirare, le conclusioni di Adriano e di Lukaku sono sempre potenti e precise, la maggior parte delle volte nello specchio della porta.
Adriano aveva un background brasiliano, che gli donava una maggiore eleganza nel controllo palla e nel fraseggio con i compagni, laddove invece Lukaku dimostra ancora qualche limite. Ma allo stesso tempo il belga dimostra molto più spirito di squadra, spendendosi molto nel gioco di sponda e aiutando il pressing sui portatori di palla, mentre lo spirito sudamericano di Adriano lo portava ad attendere di più la palla sul filo del fuorigioco.
Ma soprattutto sembra che la differenza maggiore tra i due sia nella forza d’animo: sebbene entrambi sono arrivati alla fama e alla ricchezza partendo da una situazione di miseria, Adriano è stato risucchiato dalla depressione in seguito alla morte del padre e ha gettato al vento tutto quello che era riuscito a costruirsi.
Lukaku invece ha mantenuto le promesse fatte alla sua famiglia, li ha portati fuori dalla miseria ed è diventato uno dei giocatori più famosi al mondo. Oggi è astemio, in procinto di diventare vegano, parla 8 lingue differenti ed è sempre stato un uomo chiave in qualsiasi spogliatoio abbia giocato. A 26 anni Lukaku ha usato il calcio come strumento di riscatto ed è riuscito a tenersi lontano da quelle tentazioni e da quelle follie che hanno alla stessa età avevano già trascinato l’Imperatore nella polvere.