Era la Milano da bere, e pure quella di Walter Zenga. Il ragazzino di Viale Ungheria, a due passi da Linate, che imparò a volare ascoltando il rumore degli aerei. E il volo è sempre stato fedele compagno, perché una vita tra i pali non bastava: Walter sembrava stesse sempre per andare oltre. Oltre la linea del gol, oltre l’area piccola, oltre gli attaccanti avversari. Oltre i propri limiti. Gli diedero il soprannome di Uomo Ragno: lo tenne stretto a sé, e come i grandi supereroi se ne specchiò per tutta la vita, maledicendolo al primo errore.
Chi è stato Walter Zenga, dunque? Un fuoriclasse della porta. Un allenatore che non è mai riuscito a essere allo stesso livello delle sue ambizioni. Si consola giorno e notte con i ricordi di un’Italia grandiosa, bella e viva. Di cui lui era un fedele rappresentante: a partire dai primi tuffi negli anni Settanta, dall’occasione della Macallesi e dai viaggi in auto con papà Alfonso. Che non parlava: era fisso a ogni partita di suo figlio, lo vedeva urlare e combattere, e se ne restava in disparte. Sulla linea del fallo laterale, a mordersi le labbra e sperare che tutto filasse per il verso giusto.
Una grande storia
L’erba del giardino di casa era una nuvola soffice sulla quale ci si poteva lanciare. Le prima ginocchia sbucciate non misero paura, tutto il resto fu abnegazione, voglia di arrivare. In alto, più in alto di tutti. Ecco il perché del vizietto sulle uscite alte: era la tentazione di sfatare costantemente ogni mito, l’arroganza di chi non s’arrendeva ai propri limiti.
Come quando aveva appena nove anni e all’epoca, per giocare a livello agonistico, c’era il limite della doppia cifra d’età. Era il ’69, convinse il padre a ‘dargli’ un anno in più sul primo tesserino da calciatore. Gli bastarono due stagioni, di guizzi e intuizioni, di cervello al lavoro al massimo livello. Aveva undici anni quando arrivò la chiamata dell’Inter, con cui fa tutta la trafila delle giovanili. Scoperto da Italo Galbiati che pure ricordava Alfonso, il papà, tra i pali del Napoli.
Arrivano i diciotto e Salerno gli parve un buon compromesso. Per imparare e per scrollarsi di dosso un po’ di incertezze. Badate: Zenga, seppur temerario, ha sempre rigettato l’idea del portiere calcolatore. Non valutava il rischio, rispondeva con l’istinto.
Certe volte pagava insuperabile bellezza, altre era uno scotto impietoso. E per quanto potesse tirare dritto per la sua strada, le vie verso la risalita erano sempre difficili da intraprendere, tutte intervallate dai ‘perché?’ di circostanza. Un errore contro il Campobasso gli costò il posto tra le fila granata, e i tifosi ci andarono giù pesante dopo un paio di errori in campionato. Lì si bruciò definitivamente, con quell’uscita dall’Arechi in preda alle lacrime ancora oggi nei ricordi dei campani. Scelse il Savona, quindi la Sambenedettese.
Squadra magica, quest’ultima, con Walter protagonista incredibile della cavalcata verso la B. Tanto da rimanervi anche nella stagione successiva nonostante fosse ormai pronto per la grande occasione.
A 22 anni, l’Inter non lo fece attendere. Lo chiamò per restare: sarebbe stato il vice di Bordon, avrebbe dovuto accontentarsi delle cinque gare di Coppa Italia.
Anno successivo, 1983, Zenga fece il suo esordio in Serie A in Inter-Sampdoria, diventando a tutti gli effetti il titolare dei nerazzurri. Seguiranno dodici stagioni, incredibili e intensissime, 328 presenze e 294 gol subiti.
E le vittorie: con il Trap e lo scudetto dei record (1989), la Supercoppa nello tesso anno. Nel 1991, la Coppa Uefa, la prima della storia nerazzurra. Coppa Uefa che resta nel suo cuore e nel suo destino: l’ultima gara a San Siro sarà contro il Salisburgo, l’altra finale vinta in cui Walter è indemoniato, è nella bolla della perfezione, è un canto nostalgico che fa lacrimare il Meazza.
Soprattutto, lo porta in trionfo. Chiudendo una pagina della storia di tutti con la dolcezza di cui dispone solo il calcio. Esclusiva mondiale e incontrovertibile.
Con la Nazionale
L’Inter, sì, il vero amore. Corrisposto. Sentito. Vero perché vivo.
Con la Nazionale invece era un cuore pronto a urlare tutto, dall’altra parte soltanto mulini a vento. Prima di diventare l’Uomo Ragno, Zenga è stato Don Chisciotte e la maglia azzurra, conquistata e sudata. In ogni istante. Del resto, capitò negli anni del dualismo, quello con l’amico Tacconi. Amici veri. Compagni di una vita di ritiri. Erano Juve e Inter, due icone a confronto, due tifoserie intere schierate per l’uno e per l’altro.
Vicini, il CT del 1990 e delle notti magiche, inventò persino una staffetta per schiarirsi ancora le idee: era un’amichevole contro l’Olanda, giocarono un tempo a testa. E il Mondiale se n’era già andato.
Già, il Mondiale. Quello in casa. Delle notti magiche e di una, in fondo, che si fece incubo di Walter e incubo del Paese intero. Zenga, sempre stato titolare con Vicini, dall’Europeo ’88 a Italia ’90, ha una difesa di ferro e la fortuna dalla sua: non ha preso gol, nessuno riesce a perforare l’Italia, che arriva a Napoli, alla semifinale con l’Argentina, pregna di buone speranze e della giusta arroganza. Proprio come il suo portiere.
Quella partita, da sempre, si presenta come uno showreel da film drammatico. Mentre tutto fila liscio, ecco le immagini del San Paolo, di Maradona, dei fischi all’inno, della rabbia albiceleste, del tifo partenopeo contro gli stessi azzurri, della Nazionale in bambola, del peso di ogni pallone. Poi, lo slo-mo dell’attimo determinante. Due, per la verità: Vialli che a due metri da Goycoechea si divora la finale, Zenga che capitola dopo un’avventata uscita sul capo di Caniggia. Di nuca, l’argentino rubò i sospiri dell’Italia, relegandola all’infelicità condivisa. “Solo Maradona ha capito tutto. Perché lui conosce il calcio: la verità è che è stato bravo Caniggia. È riuscito ad anticipare la mia idea di anticipare lui”, le ‘scuse’ dell’estremo difensore.
Che non mostrò mai il suo dolore, nonostante le fitte interne da eroe caduto. Questo, il Paese non glielo perdonò mai: il giorno dopo si presentò sorridente, spavaldo, come se davanti avesse una finale del Mondiale e non una storia di dolore eterno.
Era dispiaciuto, ma non voleva dare la soddisfazione a quei “quattro, cinque giornalisti sportivi che non mi sopportano”, che avevano spinto affinché giocasse Tacconi, che a lui avevano attribuito tutte le colpe del sogno spezzato. Accadde ancora una volta: era il 1991, Sacchi era stato chiamato sulla panchina azzurra dopo la mancata qualificazione agli Europei. E al nuovo CT, Walter proprio non piaceva. Sentiva, nell’aria, un cambio generazionale.
C’erano Pagliuca e Marchegiani, poco più tardi sarebbe arrivato quel ragazzino tremendo di nome Gigi Buffon. Dall’anno successivo al Mondiale, Zenga non fece più parte del gruppo azzurro: “Hanno ucciso l’Uomo Ragno”, canticchiò ai giornalisti. Ne beneficiò solo il mito.
In panchina
Mito che l’ha aiutato parecchio, in panchina. Dove le stesse soddisfazioni latitavano, e latitano tutt’ora, ad arrivare.
Dal Brera in Serie D al National Bucarest, quindi lo Steaua e infine la Stella Rossa. A Belgrado arriva il primo campionato della sua carriera, salvo quindi dimettersi nel 2006. Dopo una vita a Milano, Zenga si riscopre giramondo e va – nell’ordine – in Turchia, Emirati, nuovamente Romania, infine Serie A.
L’avventura in Italia, dall’altra parte, parte dal Catania di epoca argentina: è una stagione incredibile, di alti e bassi quasi senza senso. Semifinale di Coppa Italia e poi salvezza all’ultimo respiro contro la Roma, privata dello scudetto anche da quel pari. Nell’annata successiva, per Zenga sarà record di punti e… tradimento. Sì, perché poi passa dall’altra parte della Sicilia. A Palermo. E con Zamparini sono prime gioie e inevitabili dolori ai primi traballamenti. Coach Zeta, così si fa chiamare, decide allora di rientrare in Arabia: l’Al-Nassr di Riad gli offre un super stipendio e non si nega. Nuovamente Al-Jazira, quindi il rientro in Italia: c’è l’occasione con la Samp, tenda di riparo dopo gli anni all’Inter (vi rimase due stagioni da calciatore, dal 1994 al 1996).
Durerà fino al 10 novembre, e pochi mesi dopo finirà anche il contratto con l’Al-Shaab. Del resto, c’era il fascino inglese e un Wolverhampton da portare su: dal 6 agosto al 25 ottobre, fino all’inevitabile esonero con la squadra al diciottesimo posto. Crotone, Venezia e Cagliari nella scorsa stagione: ancora nulla da fare, Walter cerca di spiccare il volo e di imbeccare la storia giusta.
Di respingere ancora quel dolore, più lontano che può.