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Ben prima dei sorrisi, ben prima delle ultime delusioni, ben prima degli alti e i bassi dall’altro lato del campo – cioè a bordo, del campo – Vincenzino Montella era sinonimo di gol. E di qualità. E di affidabilità. Era la quarta punta dei sogni, nonostante lui volesse essere primo in tutto. Era il centravanti d’arguzia e d’astuzia, di rapidità di gambe e d’esecuzione. Era il frutto di mille partite con gli amici sull’asfalto, di quell’infanzia a Castello di Cisterna, un luogo del napoletano spesso dimenticato dai padroni, che un po’ aveva ceduto a fatica, pur consapevole della grandezza e dell’importanza dei suoi sogni.

Sapeva, Vincenzo, e aveva appena 12 anni, che certe opportunità si incastrano perfettamente nella metafora dei treni che passano per una sola volta. Alla stazione lui era arrivato da un pezzo: sognava il Napoli, arrivò l’azzurro dell’Empoli. Era il 1986, lui un ragazzino spensierato. I toscani, da sempre grande fucina di talenti, intravidero del materiale grezzo e si misero immediatamente all’opera per sgrezzare uno dei migliori attaccanti degli trent’anni.

La vita da calciatore

Giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento. A cinquecento chilometri da casa. Vincenzino aveva tutti gli alibi del mondo e invece si è sempre buttato a capofitto nelle cose di campo. Era, anzi è, un appassionato della materia come pochi. E tutta la trafila delle giovanili corse più veloce di lui, fino all’incontro decisivo con il tecnico che iniziò a cambiargli i movimenti, ad allargargli l’orizzonte di una splendida carriera. Dici Toscana, dici quell’Empoli, e il nome non può che essere quello di Luciano Spalletti, che prima incrociò da compagno di squadra. Con la maglia azzurra arrivò il debutto in Serie C1 nel 1990, a soli 16 anni. Vi rimase per cinque stagioni. Fece tanti gol. S’infortunò sul serio: nel 1993, frattura del perone e poi infezione virale. Out per una stagione e mezzo. Durissima.

Tornò in campo nell’annata successiva, tra il 1994 e il 1995: 17 reti. Se ne accorge il Genoa, in Serie B: 21 reti. Marassi sarà sempre una tappa fondamentale per lui, probabilmente la più romantica nonostante l’enorme parentesi Roma. Del resto, a Genova nacque l’aeroplanino. Come? Lo racconta Vincenzo in un’intervista di 9 anni fa a Calciomercato.com: “Non fu una cosa studiata, ma nacque in un Genoa-Cesena, nel mio primo anno di B con la maglia rossoblù. Ero stato relegato in panchina, ma entrai e segnai un bel gol in rovesciata. Rialzandomi, mi venne spontaneo esultare in quella maniera. Da allora non l’ho più abbandonata”.

E fece di sicuro la sua fortuna. Quella delle squadre in cui giocava. Perché una volta spiccato il volo, Vincenzino non scese mai di quota. Anzi. Nel 1996, l’Empoli lo riscatta dal Genoa ma da quelle zone Montella non si sposterà. È la Sampdoria ad acquistarlo per 8,5 miliardi di lire, che valgono il suo debutto in Serie A. Pronti, via, e nel derby di Coppa Italia a fine agosto conquista subito i tifosi, segnando una doppietta nel derby con il Genoa. Sarà un anno magico, con tanto di record: dall’undicesima alla quindicesima giornata, Montella segnerà infatti quattro doppiette consecutive. E alla prima stagione con la Doria, metterà 22 gol in 28 partite. Miglior risultato di sempre per un esordiente italiano nella massima serie. Solo Pippo Inzaghi farà meglio di lui.

Lo scudetto con la Roma

È che Vincenzo ha un sogno. Fortissimo. Gol dopo gol, vede la Nazionale sempre un po’ più vicina. Nell’estate del 1998, Cesare Maldini gli spezza ogni speranza nonostante una stagione da 20 gol in 33 partite. Nell’annata successiva, il ko alla caviglia che lo tiene fuori per 4 mesi. Tantissimi. Come tanti furono gli 11 gol di ‘rivalsa’ siglati da quel momento in poi, segno di come fosse diventato un giocatore di categoria. Ecco, a tal proposito: la Samp, senza l’apporto del suo centravanti, finisce nei bassifondi della classifica senza la forza di rialzarsi. A fine stagione sarà retrocessione. Per Montella, un addio sofferto.

Nell’estate del 1999, la Roma spende ben 40 miliardi di lire per farne il perno dell’attacco. In Europa è inarrestabile, in campionato va pure meglio. 18 gol al primo anno, due di questi arrivano nel derby. Già, il derby. Una gara magica in cui lui vola sempre più alto della Lazio.

Nella stagione 2001-2002, arrivò addirittura a segnare 4 gol, record per la stracittadina di Roma. “Ancora oggi, a dieci anni di distanza, i tifosi della Roma me lo ricordano, non la smettono di ringraziarmi ed è una cosa che mi fa piacere – raccontò nella stessa intervista del 2012 -. E pensare che, lì per lì, quei 4 gol non riuscii nemmeno a godermeli troppo: avevo un carattere introverso e freddo che non lasciava spazio a entusiasmi particolari. Un peccato, oggi sicuramente vivrei un’emozione così ben più intensamente”.

Di sicuro, un anno prima i sorrisi si erano sprecati: nonostante fosse spesso relegato in panchina per far spazio a Batistuta, Montella non demorde e cambia i piani della sua vita. Non si fa più stella dell’attacco: è il gregario dei sogni, l’uomo gol quando la nebbia avversaria nasconde le stelle. Nella corsa sulla Juventus, è lui a decidere le partite sofferte con Inter e Brescia. Poi, il gol del pari con i bianconeri, nella partita decisiva del 6 maggio.

All’ultima giornata, lo zampino con il Parma e l’assist per Batigol per il 3-1 finale: è tricolore. E Roma non ha mai dimenticato, né avrebbe mai voluto che andasse via. Il paradosso? Fu il suo mentore, Luciano Spalletti, a dirgli che in quella squadra non c’era più bisogno di lui. Dopo 8 anni, 258 partite, 101 gol giallorossi. “E se avessimo avuto un’altra testa, un’altra mentalità, avremmo potuto vincere molto più di un solo scudetto perché avevamo un potenziale enorme ed eravamo più forti di tutti. Ripensandoci, però, forse è stato meglio così; perché vincere uno scudetto a Roma è qualcosa di unico e irripetibile“.

Dall’altra parte

Mezza stagione con il Fulham, poi un ritorno fugace alla Sampdoria. L’ultima stagione? A trentacinque anni, ancora alla Roma. Dodici presenze in campionato, 2 in Champions League e una in Coppa Italia.

È un finale più triste di quanto avrebbe meritato e allora decide di passare subito dall’altra parte, in panchina. Inizia proprio nel 2009, diventando l’allenatore della categoria Giovanissimi della Roma, con i quali nel 2010 vincerà il suo primo Viareggio (Junior). Nel 2011, a 36 anni, viene scelto come allenatore della prima squadra in seguito alle dimissioni di Claudio Ranieri: non aveva neanche il patentino da professionista, a dargli supporto c’era Aurelio Andreazzoli, già collaboratore di Spalletti. Il ricordo più bello? Del resto, lui è un uomo derby: è il 2-0 alla Lazio, il 13 marzo del 2011.

La Roma decise di sostituirlo con Luis Enrique, l’aeroplanino volò in Sicilia per farsi le ossa e tornare con un bagaglio certamente diverso. Il 9 giugno del 2011 divenne l’allenatore del Catania: salvezza garantita nel primo anno, show pazzesco nel secondo. Undicesimo posto e nuovo record di punti in Serie A, 48.

Poi? La chiamata di una semi big, alla quale l’ambizione di Montella non poteva dire di no: i Della Valle gli affidano una Fiorentina giovane e forte. Soprattutto, con qualità devastante. E in quel mare tecnico, Vincenzo ci sguazza: non è un caso che alla prima stagione arrivi addirittura al quarto posto con 70 punti, vincendo il Premio Bearzot e dimostrando di essere il giovane in rampa di lancio in un calcio italiano che era pronto a tornare ad alti livelli. A Firenze, arriveranno anche grosse delusioni: nonostante un altro quarto posto, perderà la finale di Coppa Italia con il Napoli; nella stagione 2014-2015, l’eliminazione dal Siviglia in Europa League, una competizione molto sentita al Franchi.

L’otto giugno del 2015, frizioni societarie portano la Fiorentina a interrompere il rapporto. Qualche mese più tardi è sulla panchina della Sampdoria, ma sarà una stagione tremendamente complicata e a fine anno arriva la parola fine. Una fine che si fa subito inizio, però. Inizio e opportunità.

A bussare alla sua porta c’è infatti il Milan: in tre anni vincerà la Supercoppa Italiana e riuscirà a riportare il Milan in Europa. L’ambiente non lo accoglierà mai a braccia aperte: è una squadra, la sua, troppo altalenante e con i fasti di un tempo dietro l’angolo. Non era tempo per lui, né per una rivoluzione. Ed è solo l’inizio della caduta (quasi) in picchiata: dopo il Milan, arriverà il Siviglia – Maradona, addirittura, si oppose – e nonostante un quarto di finale di Champions non riuscirà a incidere sulla discontinuità di quella squadra. Il ritorno alla Fiorentina, con Commisso, è forse più amaro: dopo 4 vittorie su 24 partite di campionato, l’esonero è inevitabile.