Tre giorni fa, il 14 maggio 2023, è morto Doyle Brunson. “Texas Dolly” si è spento all’età di 89 anni – avrebbe festeggiato la 90a candelina il 10 agosto – per cause che la famiglia per ora non ha reso pubbliche.
La Rete è stata sommersa dalle condoglianze e dai ricordi di coloro che hanno avuto la possibilità di conoscere personalmente Doyle Brunson. E non parliamo solo dei grandi professionisti ma anche dei milioni di appassionati sparsi in tutto il mondo che adesso piangono la perdita di un’icona del poker. Perché, diciamolo senza esitazioni, Doyle Brunson ha scritto la storia di questo gioco.
Con 60 anni di carriera alle spalle, Brunson ha attraversato tre ere del poker e sfidato 4 generazioni di giocatori. Questo lo rende una figura leggendaria.
Certo, è stato anche un grande giocatore. Probabilmente uno dei più grandi nel sul periodo più fulgido, quello che va dall’inizio degli anni Settanta alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Parliamo dell’era pre-Internet, durante la quale Brunson ha vinto 8 dei suoi 10 braccialetti WSOP. Dopo il boom del poker nel primo quinquennio del Duemila, la sua stella è andata un po’ declinando, complice anche il peso dell’età.
Ma dire che la sua stella splenda soprattutto per i risultati ottenuti al tavolo sarebbe un giudizio parziale, se non addirittura scorretto. Ci sono giocatori che hanno dimostrato di essere più vincenti e forti negli stessi anni in cui Brunson era in grande spolvero. Parliamo ad esempio di Stu Ungar, di Johnny Chan, di Eric Seidel e di Phil Hellmuth che ha vinto il suo ME WSOP nel 1989 a 25 anni.
Tutti questi giocatori hanno conquistato i loro primi titoli importanti quando i field dei tornei contavano già alcune centinaia di partecipanti. Brunson ha vinto i primi 6 braccialetti WSOP in tornei che avevano un field medio di 23 iscritti.
Con questo non vogliamo sminuire il valore del Brunson giocatore che, vale la pena ricordarlo, è stato soprattutto un esperto di cash game. Vogliamo piuttosto evidenziare che il suo status leggendario si lega soprattutto ad altri fattori: da un lato la durata della carriera, dall’altro l’aver illuminato la via del nuovo poker, quello dei tornei.
Per comprendere lo iato tra il poker pre-torneistico e quello inaugurato dalle WSOP, è necessario tornare agli anni ’50. La fotografia di quel periodo descrive un poker per lo più illegale negli Stati Uniti (solo Nevada e California avevano già liberalizzato completamente il gioco) e praticato all’interno di bische clandestine. Inevitabile che tra gli habitué ci fossero anche figure poco raccomandabili.
In sostanza si tratta di un poker in stile western, all’interno del quale cominciano però ad affacciarsi i primi professionisti. C’è infatti un gruppo di texani che gira le bische dell’area Centro-Ovest degli States a caccia di partite facili. Il veterano è Johnny Moss che fa da traino a Thomas “Amarillo Slim” Preston e Bryan “Sailor” Roberts. Sul finire degli anni ’50, al gruppo si aggiunge un giovane Doyle Brunson.
Alle spalle Brunson ha una laurea, una possibile carriera nel basket professionistico (con i Minneapolis Lakers) sfumata a causa di un infortunio e un lavoro come agente di commercio per un’azienda di macchine utensili. Nel suo background c’è già anche il poker che ha imparato all’Università di Abilene e che ha poi utilizzato nelle partite caserecce con i colleghi di lavoro. A questo riguardo c’è un aneddoto che la dice lunga sulle sue qualità di giocatore.
La sera della sua assunzione in azienda, Doyle Brunson partecipa a una partita di stud poker organizzata da colleghi e dirigenti: in meno di tre ore vince 2.500 dollari, l’equivalente di un mese di stipendio! A quel punto il dubbio lo assale: “Perché dovrei continuare a vendere macchine che non interessano a nessuno quando posso sedermi al tavolo e guadagnare dieci volte di più in un sesto del tempo?“. (Super System 2, Cardoza Publishing 2005)
Più che un dubbio è una scelta. A 27 anni Doyle Brunson decide di dedicarsi al poker come professione e inizia a girare le sale da gioco clandestine. Lo fa prima insieme all’amico Dwayne Hamilton e poi con il gruppo dei già citati texani.
Le partite illegali abbondano e sono anche facili dal punto di vista tecnico. Un po’ meno da quello dell’incolumità. Il rischio di essere aggrediti dai ladri che aspettano i giocatori dopo la partita per derubarli, è alto. Racconta Brunson in un’intervista rilasciata a Nolan Dalla nel 2003: “Mi viene in mente una partita che stavamo facendo in una bisca di Exchange Street, a Forth Worth. Un tizio armato di revolver sfondò la porta e poi sparò sul giocatore che si trovava al mio fianco. Ricordo ancora il suo cervello sparso sul pavimento“.
I “rounders” texani si adattano e girano armati. Brunson ha una 357 Magnum, Preston una calibro 38, i due si coprono le spalle uno con l’altro. “All’epoca non ero ancora sposato, non avevo responsabilità e adoravo quello stile di vita. Guardando adesso le cose con distacco, riconosco che era molto pericoloso“. (Doyle Brunson in un’intervista per Justin Marchand).
Passa poco tempo e il matrimonio arriva davvero, seguito da un figlio (Todd, l’unico maschio su quattro). E nel 1962, purtroppo, arriva anche una grave malattia: un cancro che dalla gola attacca anche stomaco e cervello. Gli vengono dato solo quattro mesi di vita ma, durante le cure palliative, i medici scoprono che improvvisamente il cancro non c’è più. Viene definita una “remissione spontanea”, qualcosa di molto vicino al miracolo. Brunson invece la interpreta come una rivelazione.
“Il mio faccia a faccia con la morte aveva liberato delle attitudini che non si erano mai manifestate prima. La cosa più importante fu che scoprii la mia vera vocazione… Per insistenza della mia famiglia e dei miei amici avevo messo in conto di trovare una professione più ‘legittima’, ma adesso sapevo che non sarebbe mai successo“. (Storia del poker di Franck Daninos, ed. Odoya 2011))
Doyle Brunson riprende subito a giocare e si accorge di essere in una condizione di forma mai provata prima. Vince 55 sessioni consecutive di cash game e la sua fama inizia a crescere, fino a quando Doyle Brunson diventa uno dei rounders più noti negli States. Ma in vista ci sono cambiamenti importanti, perché di lì a poco i tempi diventeranno maturi per un nuovo tipo di poker.
Verso la fine degli anni ’60 qualcuno ha iniziato ad accorgersi che, per rendere più popolare il poker e attirare un numero maggiore di persone nei casinò, servono formule di gioco alternative. Serve un poker dove i giocatori si sfidano investendo una quota fissa di denaro e niente di più, dove tutti iniziano con lo stesso numero di chips e dove alla fine c’è vincitore.
Nel 1971 Benny Binion manda in scena il primo torneo alle World Series Of Poker. Anche se vi partecipano solo 6 giocatori, l’impatto è positivo. Un anno dopo il conto degli iscritti sale a 8, tra i quali c’è anche Doyle Brunson che chiuderà terzo. Ma è dal 1976 che il suo nome si associa in maniera definitiva a quello delle WSOP.
Quell’anno vince i primi due braccialetti, uno è il Main Event. Nel 1977 fa il bis con altri due titoli, compreso il secondo Main Event. Va a segno ancora nel 1978, nel 1979 e nel 1980 sfiora il terzo Main Event. Alla fine degli anni ’70, Doyle Brunson è la figura che meglio incarna la nuova figura del professionista di poker “ufficiale“. Il rounder delle bische ha lasciato il posto a ‘Texas Dolly‘, nickname creato casualmente nel 1973 dal commentatore Jimmy Snyder che avrebbe invece voluto chiamarlo Texas Doyle.
Grazie anche al suo stile amichevole al tavolo, al sorriso facile, all’immagine di “family man” e alle tecniche da torneo descritte poi nel suo Super System del 1979, Doyle ‘Texas Dolly’ Brunson diventa l’ambassador perfetto per le World Series Of Poker.
Trovare un sostituto, oggi, non sarà facile.
Immagine di testa: Doyle Brunson (credits PokerNews)