Se state cercando un film sul poker, “Il Collezionista di Carte” non è la scelta giusta.
Presentato al Festival di Venezia 2021, l’ultimo lavoro scritto e diretto da Paul Schrader è un film sulla solitudine, sulla memoria, sul conflitto tra colpa e bisogno di redenzione. Ma del poker – che sia almeno credibile – c’è davvero poco.
I temi sono quelli cari al regista, autore di pellicole importanti come American Gigolò (1980) e Affliction (1997) e alle sue sceneggiature, forse ancora più celebri. Tra queste ricordiamo Yakuza (1975), per la regia di Sydney Pollack, e Obsession – Senso di colpa (1976), per la regia Brian De Palma. E ancora i due capolavori di Martin Scorsese (ora nella veste di produttore per il film di Schrader) Taxi Driver (1976) e Toro Scatenato (1980). Senza dimenticare L’Ultima tentazione di Cristo, sempre di Scorsese, uscito nel 1988 in mezzo a tante polemiche più di stampo religioso che cinematografico.
Eppure, ne Il Collezionista di Carte proprio la sceneggiatura è la parte che ci ha lasciato più perplessi.
La trama – La storia è quella di William Tell (Oscar Isaac), un reduce dall’Iraq sul quale pesano non solo i ricordi della guerra ma soprattutto quelli dei soprusi commessi ai danni dei prigionieri. Tell viene infatti scelto dal maggiore John Gordo (Willem Dafoe, uno degli attori preferiti di Schrader) come addetto agli interrogatori. Vessazioni, umiliazioni, violenze e torture sono il pane quotidiano di Tell, fino a quando l’operato dei militari finisce sui giornali e poi in tribunale. A pagare sono i gradi inferiori, come il personaggio interpretato da Isaac, mentre Gordo e gli alti ufficiali coinvolti nelle torture la fanno franca.
Tell sconta parecchi anni di prigione negli Stati Uniti. Una volta libero, decide di lasciarsi tutto alle spalle guadagnandosi da vivere con il gioco. Ma la rimozione della memoria non arriva mai completamente. Ancor meno quando viene rintracciato dal giovane Cirk Beauford (Tye Sheridan) che vuole vendicare il padre, morto suicida dopo essere stato anche lui agli ordini di Gordo.
Il finale è risolto, in maniera quasi catartica, da un heads-up tra Tell e Gordo: non con le carte, ma a colpi di torture e schizzi di sangue (per fortuna non si vede nulla).
In tutto questo che ruolo ha il poker?
Il poker – Nel film non c’è solo il poker, ma ci sono anche i giochi da casinò. Il film si apre infatti con il protagonista impegnato al tavolo del blackjack e un voice over in stile Rounders che spiega le skills necessarie per battere il banco. Un po’ alla volta il Texas Hold’em prende però il sopravvento. C’è un po’ di cash game e ci sono i tornei, entrambi raccontati in maniera poco realistica.
La ragione è chiara. Per il regista il poker è un mezzo per raccontare l’anima tormentata del protagonista. E’ una maschera, dietro la quale William Tell cerca di sopire il proprio conflitto interiore. Il problema è che il gioco e il mondo del poker vengono raccontati così male da diventare involontariamente comici. E alla fine perdono l’effetto che invece dovrebbero avere.
Qualche esempio. Durante tutto il film si sentono di continuo i termini (per lo più italianizzati) del gioco, ma non c’è mai un board. L’inquadratura esclude sempre le carte sul tavolo e spesso anche le hole cards: così, quando un giocatore abbandona il tavolo oppure lo si vede esultare, non si sa mai cos’è successo. Il pathos, l’attenzione per la “maschera” sparisce completamente.
La scena in questo senso più clamorosa è quella del primo HU contro l'”uomo da battere”: un ucraino che vive in America, che indossa una canottiera a stelle e strisce e che sa solo dire “U.S.A., U.S.A., U.S.A.”. Ebbene, Tell dichiara l’all-in, il suo avversario fa call. Poi l’inquadratura si allontana: si vede il protagonista sconfitto che lascia la sala mentre l’ucraino esulta con il consueto slogan.
In realtà un board c’è. Tell racconta a Cirk una mano “esemplare” per il suo futuro di giocatore, un mega scoppio: un giocatore chiude scala colore al river, mentre l’avversario ha fullhouse di Q ai T. Una scena non particolarmente nuova, tra l’altro, ma che nella versione italiana viene descritta come full di Donne ai Re, quando sul board di K non se ne vedono proprio.
Forse è un errore della traduzione italiana (davvero pessima anche in altre circostanze “tecniche”), ma il problema resta: perché non assumere un esperto di poker per rendere un po’ più credibile e avvincente l’azione al tavolo? Altrimenti Tell avrebbe potuto benissimo fare un lavoro più normale per reinserirsi nella società (come Travis Bickle, il tassista di Taxi Driver).
Conclusioni – Il film mette in scena contenuti importanti, sia esistenziali che sociali (tra questi l’abuso di potere e i crimini di guerra). A supportare lo scopo c’è una regia asciutta e una fotografia scarna, molto realistica, senza nulla di “patinato”. A nostro avviso manca invece una trama solida e mancano i dialoghi a sostegno. Il film scorre in maniera piatta: le poche svolte emozionali si perdono subito in scene e battute che sono degli anticlimax. Lo ripetiamo: traduzione e doppiaggio italiano per una volta non aiutano. Ma rimane il fatto che anche i personaggi sono trasparenti ed è davvero difficile provare qualche emozione per loro, che sia positiva o negativa. Gli attori, dal canto loro, poco possono fare con battute che sono quasi sempre fuori tono con quello che accade.
Paul Schrader aveva detto nella conferenza di presentazione del film: “L’intera vicenda si svolge tra casinò americani, cocktail lounge e camere di motel: le regioni costiere americane e le animate interstatali sono il luogo ideale per qualcuno che vuole perdersi e rimanere perso. Ma anche il luogo in cui qualcuno può inaspettatamente ritrovarsi grazie anche alla varietà di persone e personalità che incontra“.
Noi questa varietà di persone che abitano il mondo del gioco, e del poker nello specifico, non l’abbiamo vista. Eppure esiste ed è interessante da raccontare. Rounders, in passato, era riuscito a farlo.
Immagine di testa credits unicimagazine.it