Esiste davvero il talento naturale? Il senso comune dice di sì, ma la scienza fatica a separare la percentuale di abilità innata dalla quantità di allenamento all’interno di una grande performance.
Thomas Edison diceva che il successo è “1% ispirazione e 99% sudore” (1% of inspiration and 99% of perspiration) e molto probabilmente aveva ragione. Ma l’idea del puro natural, cioè della persona che non ha bisogno di faticare troppo per essere vincente, esercita un fascino al quale è difficile resistere. Anche perché spesso si associa a un destino “maledetto”.
Mozart e Paganini nella musica, Van Gogh, Antonio Ligabue e Basquiat nella pittura, se parliamo di arte. Se invece ci spostiamo verso il settore dei giochi, il caso più esemplare è quello di Stu Ungar.
Il suo nome è indissolubilmente associato al poker. Chiunque si avvicini a questo gioco incontra prima o poi la storia di Stuart Errol Ungar e ne rimane affascinato. Una storia che racconta sia le vette raggiunte da uno dei più grandi giocatori di poker di sempre che i continui precipizi esistenziali.
Ma l’inclinazione naturale di Ungar per il gioco si manifesta già prima del poker. Figlio di un bookmaker, da bambino “Stuey” si appassiona al Gin Rummy (il nostro Ramino). A 10 anni vince il suo primo torneo e a 14 è già il più forte giocatore di New York. Nelle bische clandestine della “Big Apple” batte avversari che hanno almeno 20 anni di esperienza in più. Non solo li batte, ma li “spenna” visto che le partite sono a soldi. Per questo motivo, oltre che per la morte del padre, a un certo punto decide di lasciare la scuola per dedicarsi al gioco come professione.
Ungar ha dalla sua una memoria visiva incredibile e un quoziente intellettivo superiore a 180. Ma ha anche un brutto carattere. E’ arrogante, gli piace schernire gli avversari e questi, un po’ alla volta, smettono di giocare contro di lui. E poi ha il vizio delle scommesse.
La passione per le corse dei cavalli gli deriva molto probabilmente dal padre che però sapeva come gestire il denaro. Stu Ungar, al contrario, non ha freni. Il giovane perde molti soldi con il betting, si indebita e con i debiti arrivano anche i primi nemici. Buon per lui che un noto criminale, Victor Romano, lo prenda sotto la sua ala protettrice.
Tuttavia, un po’ per i debiti e un po’ per la mancanza di avversari, nel 1976 Stu Ungar decide di lasciare New York. Rimane per qualche mese a Miami e poi, nel 1977, raggiunge Las Vegas dove trova nuovi giocatori di Gin Rummy da sfidare.
Il caso più clamoroso è quello di Harry “Yonkie” Stein, un professionista canadese molto conosciuto. La sfida tra i due è inevitabile: 86 partite a Gin Rummy. Il risultato? 86 a 0 per Ungar! La batosta è così pensante che Stein lascia Las Vegas e abbandona per sempre la carriera di giocatore.
Ma l’escalation di Stu Ungar non si ferma lì. Continua a vincere tornei di Gin Rummy fino a quando gli viene impedito di partecipare. A quel punto l’allora 25enne scopre un altro gioco dove poter eccellere: il Blackjack.
La storia con il “ventuno” praticato nei casinò non è tanto diversa dalla precedente. La memoria visiva unita alla capacità di calcolo mentale consentono a Stu Ungar di sbancare regolarmente i tavoli. Per le case da gioco di Las Vegas diventa un cliente scomodo al punto che gli viene proibito di giocare a Blackjack.
Nonostante il divieto, un giorno Stu Ungar si reca nel casinò allora gestito da Bob Stupak per chiedergli di essere riammesso ai tavoli. Il giocatore di poker/businessman non accetta ma in compenso gli offre una sfida particolare per mettere alla prova le skills di Ungar. In palio ci sono 10.000 dollari e Stuey accetta.
Stupak inizia a girare “face up” sul tavolo le carte di un mazzo: una alla volta, fino alla 51ma compresa. Poi si ferma. La 52ma rimane coperta e Ungar deve indovinare di quale carta si tratti. “Un J♦” esclama Stuey. Stupak gira la carta e, tra lo stupore generale, mostra proprio un Jack di quadri.
Mike Sexton, amico di Ungar, spiegherà poi che il giovane campione ha attribuito ad ogni carta del mazzo un punteggio in base a seme e valore numerico. Alla fine ha sottratto il totale calcolato da quello dell’intero mazzo e il risultato gli ha permesso di sapere esattamente cosa si nascondesse dietro all’ultima carta.
La vincita è buona ma senza Gin Rummy e Blackjack i conti non tornano. La situazione spinge Stu Ungar verso il suo ultimo approdo ludico, quello che lo ha consegnato alla storia: il poker.
Dopo solo qualche mese di apprendimento, Ungar debutta nel 1980 alle World Series Of Poker. Ha 26 anni, un fisico minuto, la faccia da bambino e un taglio di capelli alla Rolling Stones: in mezzo a tanti giocatori molto più anziani di lui è inevitabile che venga ribattezzato “The Kid”.
Il 10 maggio 1980 chiude al secondo posto nell’evento $5.000 Limit Seven Card Stud e incassa $45.000 di premio. E’ il suo primo in the money in un torneo ufficiale di poker.
Sette giorni dopo è tra i 73 partecipanti al Main Event. Ancora una volta le sue qualità fanno la differenza e Ungar non fatica troppo a raggiungere la zona dei premi fissata a 5 left. Gli altri 4 sono Johnny Moss, Charles Dunwoody, Jay Heimowitz e Doyle Brunson.
E’ proprio Texas Dolly ad offrirci il primo affresco di quel giovanissimo campione. “Faceva le cose con naturalezza, il che gli riusciva molto bene” racconta Brunson. “Si fidava del suo istinto. Reagiva come un animale selvatico che pensavi di aver intrappolato. Il suo istinto animale gli faceva prendere le decisione giuste, giocare le carte buone“. (fonte “Storia del poker” di Franck Daninos, ed. Odoya 2011)
Il testa-a-testa per il titolo mette di fronte proprio Brunson e Ungar. I due iniziano con stack pressoché simili ma nonostante questo nessuno dei due si risparmia. Sia Brunson che Ungar giocano un poker molto avanzato per quel periodo, fatto di rilanciati e azioni ad elevata aggressività. La sfida si conclude in 15 minuti.
Nell’ultima mano il due volte vincitore di un ME WSOP apre rilanciando a 10.000 con A♥7♥. Ungar chiama con 5♠4♠. Si va al flop: A♦7♦2♣. Dopo il check del debuttante, Brunson punta altre 10mila chips con la doppia coppia floppata. The Kid ci pensa un po’ e poi chiama confidando nella scala a incastro. Al turn scende proprio un 3♣ che completa la sua scala. Ungar stuzzica Brunson puntando 30.000 chips, il texano non ci sta e va diretto in all-in. A quel punto The Kid non deve fare altro che chiamare e confidare in un river privo di Assi o 7. L’ultima carta è un 2♦ che consegna a Stu Ungar il primo titolo Main Event WSOP, accompagnato da 365mila dollari di premio.
Ne perderà subito quasi un terzo contro Jack “Treetop” Straus che lo sfida a chi “putta” meglio su un green di golf. La proposta è assurda perché Ungar non ha mai preso in mano una mazza, ma dopo qualche colpo di prova The Kid si sente già all’altezza. In un’ora perde 80mila dollari solo cercando di mandare la palla in buca. Si dice che il resto della sua prima grande vincita se ne sia andato poco dopo.
La storia del più leggendario poker player di tutti i tempi è nata in questo modo ed è continuata così, sia nel bene che nel male, fino alla prematura morte avvenuta nel 1997, subito dopo l’ultimo colpo di coda dell'”alligator blood“.
Immagine di testa credits PokerNews