Da almeno un quarto di secolo, “poker americano” significa Texas Hold’em.
La svolta verso la “Cadillac del Poker” – così Doyle Brunson ha definito il TH già nel 1978 – ha avuto due tappe fondamentali. La prima è legata all’uscita del film Rounders (1998) che ha fatto conoscere il “poker alla texana” oltre i confini degli Stati Uniti. La seconda è la vittoria di Chris Moneymaker nel Main Event WSOP 2003: una vittoria record perché ha trasformato un satellite da poche decine di dollari in 2,5 milioni di primo premio, portando la formula del torneo nei casinò di tutto il mondo.
Con l’unica eccezione del 1970, quando il Main Event fu un mix di giochi in modalità cash game, il torneo più importante delle World Series Of Poker si è sempre giocato con il Texas Hold’em. Oggi, chi vince il braccialetto del Main Event è per tutti il “nuovo campione del mondo di poker”, a testimonianza di quanto Doyle Brunson avesse ragione sulle potenzialità della “texana”.
Il Texas Hold’em, infatti, è senza dubbio la tipologia di poker americano ideale per organizzare un torneo.
Anche se non è corretto dire che questi due elementi sono nati insieme – la comparsa del TH precede di molto quella dei tornei -, l’abbinamento ha fatto la fortuna di entrambi. Da allora, e non a caso, tutti i giochi di poker sono diventati “varianti” del Texas Hold’em, un appellativo che rende chiaro il divario esistente tra la “Cadillac” e gli altri.
Questo, però, non significa che le varianti siano poco interessanti e non meritino almeno un po’ di attenzione. Proviamo allora a conoscerle più da vicino, iniziando dalla più diffusa: l’Omaha.
Il vantaggio principale che l’Omaha possiede sulle altre varianti consiste nella sua somiglianza al Texas Hold’em. Anche l’Omaha è infatti un community card game, cioè un tipo di poker dove i partecipanti giocano con le proprie hole cards (le carte nascoste) su un board di carte comuni.
Il board è articolato in flop, turn e river, esattamente come nel Texas Hold’em. Anche il ranking dei punteggi rimane uguale. Lo stesso dicasi delle posizioni al tavolo (Dealer, SB, BB), la sequenza di gioco e il sistema di distribuzione delle carte coperte.
La differenza sta invece nelle hole cards che sono 4 anziché 2. Questo cambiamento davvero notevole rende l’Omaha un gioco molto più “selvaggio” del Texas Hold’em. Ma procediamo con ordine, iniziando dal tipo di azioni.
I giocatori possono scegliere di foldare le proprie carte, fare check, chiamare una puntata precedente oppure rilanciarla. Allo showdown finale, però, il piatto viene assegnato a chi realizza la mano più forte combinando due hole cards e tre carte del board. Non è possibile vincere usando solo una della proprie carte come avviene nel TH, ma è tassativo usarne due. Sempre, anche quando il punto più forte è composto dalle 5 carte sul tavolo. Nell’Omaha il “playing the board” non esiste: il piatto va alla combinazione migliore tra 2 hole cards e 3 board cards.
Facciamo un esempio. Su un board che al river mostra 9♥4♥2♣J♥Q♥, un giocatore con A♥Q♣7♦6♦ non ha colore, perché tra le sue hole cards c’è una sola carta di [h]! Gli servirebbe la seconda (vanno usate sempre due carte!), ma non avendola il suo punto è una coppia di Donne con Asso Kicker. Va sottolineato che si tratta di un punto modesto perché con 4 hole cards a disposizione le combinazioni vincenti sono quasi sempre molto alte. Nell’Omaha si comincia a ragionare dal set in su!
Ecco la ragione per cui lo abbiamo definito un tipo di poker molto più “selvaggio” rispetto al TH e che richiede più prudenza nella scelta delle azioni. Con 4 hole cards, ogni giocatore dispone di ben 6 combinazioni diverse da usare insieme alle carte del board!
Per compensare il gran numero di mani forti che possono essere realizzate e i frequenti cooler (cioè lo scontro tra due o più punti molto elevati), l’Omaha si gioca Pot Limit, cioè con puntate che dipendono dalla dimensione del piatto. Di come funziona il sistema Pot Limit abbiamo già parlato in un precedente articolo.
Un altro “ritocco” riguarda il numero di partecipanti. Di solito il PLO Omaha è giocato 6-handed, cioè con 6 giocatori al tavolo. D’altra parte, con ogni giocatore che riceve 4 carte, un full-ring a 9 lascerebbe solo 16 carte nel mazzo (52-36): troppo poche per rendere emozionante il gioco!
Fino a qui abbiamo parlato del PLO (Pot Limit Omaha). Esiste un’altra versione di questo gioco, l’Omaha hi-lo, alla quale dedicheremo tuttavia uno spazio a parte.
Perché vale la pena provare il PLO? Innanzitutto perché, a livello di regole, le differenze con il Texas Hold’em sono poche. Cambiano però gli elementi tecnici che spostano l’attenzione dalla fase preflop a quella postflop e all’utilizzo di un sistema di puntata (il pot limit) che il TH ha quasi completamente abbandonato.
Il PLO è un gioco ad alta adrenalina per i motivi che abbiamo già indicato, ma dove la tecnica – in particolare quella delle puntate – fa davvero la differenza. Ultimo ma non meno importante, l’Omaha si adatta bene anche ai tornei: cede un po’ quando i bui iniziano ad essere molto alti, ma nelle fasi precedenti offre molta più action rispetto al Texas Hold’em.
Ci sono infatti specialisti di Omaha da torneo che hanno lasciato il segno alle WSOP in questa specialità. Ad esempio Phil Galfond, Phil Ivey, Shaun Deeb, Todd Brunson, il figlio di Doyle, e Allen Kessler, 4 volte runner-up in un torneo WSOP. Anche l’Italia ha la sua “cintura nera” di Omaha: Dario Alioto che ha vinto il titolo WSOPE di specialità nel 2007.
Immagine di testa credits PokerNews