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Quando sono stati tirati per la prima volta i dadi?

La domanda può suonare strana ma in realtà ci riguarda da vicino perché coinvolge l’antropologia culturale, la storia della civiltà e soprattutto l’archeologia.

Sembra infatti che già nel Neolitico (8.000-4.000 anni fa) i nostri progenitori avessero sviluppato il senso del gioco e della casualità.

Nel Sud-Est dell’attuale Turchia, all’interno del “tumulo funerario di Başur Höyük” gli archeologici hanno trovato una serie di 49 piccole pietre dipinte e scolpite in forme diverse. Alcune raffigurano animali, altre sono forme geometriche come piramidi e dadi. Secondo gli studiosi si tratterebbe dei pezzi di un primordiale gioco di società. (fonte oltre-la-notte.blogspot.com)

Ritrovamenti simili sono stati fatti in altre località della Siria e dell’Iraq. Spostandoci un po’ più avanti nel tempo (intorno al IV millennio) e di luogo (Mesopotamia), si scopre che affidarsi al caso per puro intrattenimento significava lanciare in aria oggetti piatti (gusci, piccole pietre, bastoncini) dipinti solo da un lato. Lo facevano probabilmente i “giocatori” sumeri che ottenevano “punti” solo se il lato colorato rimaneva esposto dopo il tiro.

Nella tragedia greca si fa riferimento al re dell’Eubea Palamede quale inventore dei dadi (ca. 1400 a.C.). Non possiamo garantire che il copyright per l’UE sia suo, ma di certo nei secoli successivi in Grecia si usavano oggetti di pietra o di osso con incisa una numerazione simile a quella dei dadi:

Dadi Knucklebone. Grecia/Tracia, III secolo a.C. (credits gamecows.com)

Da tutto questo si comprende che per parlare di dadi non è necessario attendere l’Alea iacta est di Giulio Cesare.

Non c’è dubbio, però, che i romani conoscessero molto bene l’uso dei dadi. Non solo per superare il Rubicone, ma anche per giocare al Ludus duodecim scriptorum (“gioco delle dodici linee”), cioè la versione antica del backgammon. Per una partita ad Alea o Tabula (gli altri nomi con cui era indicato il gioco) i romani usavano una tavola in pietra con 24 o 36 caselle, 12 o 30 pedine in due colori diversi e 3 dadi.

In realtà la Tabula dei romani assomiglia alla versione del backgammon che ancora si pratica in Turchia e in alcune parti della Grecia. Le pedine iniziano tutte fuori dal tavolo e devono fare il percorso lungo le caselle per uscire dall’estremità opposta. La pedine singola, se intercettata da una avversaria, rimane bloccata fino a quando questa non si sposta.

Tavoliere di XII scripta conservato al museo di Efeso (credits Wikipedia)

A loro volta i romani avevano appreso il “backgammon” dal Vicino Oriente, vero centro di creatività ludica.

IL GIOCO REALE DI UR

O gioco delle venti caselle. E’ questo, forse, il primo boardgame del quale si abbia traccia nella storia. Si presume che ad inventarlo e a praticarlo siano stati i sumeri, tra il 3.000 e il 2.500 a.C.. E’ così chiamato per il ritrovamento di alcune tavole da gioco nelle tombe reali della città-stato sumera di Ur.

Copia del gioco reale di Ur esposta al British Museum (credits Wikipedia)

Si pensa che la meccanica fosse simile a quella del backgammon: cioè una corsa di pedine legata al lancio di dadi o di altri “oggetti di sorte”. Qualcuno si è dedicato alla ricostruzione (in parte ipotetica) delle regole: lo storico del British Museum, Irving Finkle, che potete vedere immerso in una partita in questo video pubblicato su YouTube:

Il backgammon però ha anche un altro progenitore.

IL SENET

Lo giocavano gli egiziani a partire, più o meno, dal 3.300 a.C.. Il nome viene tradotto in “gioco del passaggio” ad indicare il senso di movimento/transizione sia delle pedine (come nel backgammon) che della vita: da terrena a ultraterrena.

Anche nel caso del Senet, le regole sono una ricostruzione moderna. Il tabellone era diviso in quadrati con pedine. I giocatori lanciavano bastoncini anziché dadi.

Il Senet è stato raffigurato in un affresco trovato nella tomba di Merknera (3300-2700 aC). (fonte www.gamecows.com)

Ricostruzione di una tavola di Senet (credits etsy.com)

IL MEHEN

Rimaniamo nell’Antico Egitto con il Mehen o “gioco del serpente”. Il nome è infatti quello del benefico dio-serpente, guardiano della barca solare di Ra e il cui nome significa “colui che è arrotolato“.

Non sorprende quindi che anche la tavola del gioco sia tonda. Su di essa i giocatori muovevano le pedine in base al tiro dei dadi, con lo scopo di portarle dalle coda alla testa del serpente. Conclusa questa prima tratta, le pedine si trasformavano in leoni o in leonesse e poi iniziavano il percorso a ritroso verso la coda. I dadi tirati sotto forma di leone/leonessa valevano doppio. Il primo ad arrivare alla coda era il vincitore della partita.

Una versione antica della “plancia” per giocare a Mehen (credits PerGioco.net)

In conclusione possiamo dire che il rapporto tra uomo e gioco è quasi ancestrale ed è cresciuto nel tempo con lo sviluppo della civiltà.

La ragione è che il gioco, un po’ come l’arte, ci porta altrove, ci aiuta a superare le limitazioni della vita, ci insegna a convivere.

Per questo non siamo solo sapiens sapiens: siamo anche (inevitabilmente) ludens.

Immagine di testa: la Tavolo (o Gioco) Reale di Ur