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Dopo la disfatta dei Giochi Olimpici di Atene 2004, quando l’Argentina condannò team Usa ad una cocente delusione in semifinale e al terzo posto nella competizione, gli Stati Uniti avevano come obiettivo quello di qualificarsi alle Olimpiadi di Pechino 2008 e di riportare l’oro negli States. Lebron James, Dwayne Wade, Carmelo Anthony e Carlos Boozer su tutti, presenti ad Atene, sentivano di essere in debito con il proprio paese e avevano necessità di redimersi.

La guida

Per raggiungere questo obiettivo, serviva un allenatore all’altezza. Dopo la disfatta di Atene, fu chiamato dunque coach Mike Krzyzewski, leggenda di Duke University. Tra le altre cose, l’ex allenatore di Duke fu scelto come “coach della nazionale” e non come “coach olimpico”, un vero e proprio mandato di quattro anni, dal 2004 al 2008. Una scelta importante da parte degli americani, che avrebbero dovuto disputare il mondiale del 2006 in Giappone per qualificarsi alle Olimpiadi. Gli aspetti su cui coach K lavorò maggiormente furono lo spirito di appartenenza e la coesione del gruppo; inoltre l’ex allenatore di Duke cercò di far capire ai suoi ragazzi che le altre nazioni erano cresciute a dismisura dal punto di vista cestistico, per cui vincere non sarebbe stata una passeggiata. E infatti, ai Mondiali 2006 gli Usa si fermarono in semifinale contro una Grecia che distrusse gli avversari con l’arma del pick and roll, ma qualcosa stava cambiando. Team Usa iniziò a creare un gruppo solido, che vinse successivamente i Fiba Americas, dimostrando compattezza e consapevolezza. Questa vittoria consentì a Lebron e compagni di staccare il pass per i Giochi Olimpici di Pechino. Il primo obiettivo era stato raggiunto.

Kobe a Pechino

Nel 2004 e nel 2006 Kobe Bryant non c’era. Nel 2008, il Black Mamba decise di unirsi ad una squadra in cui James, Wade e Anthony erano le guide tecniche. E questi ultimi tre, come detto, avevano voglia di rivalsa. L’entrata in scena di Kobe Bryant aiutò il gruppo dal punto di vista della dedizione al lavoro. Kobe si allenava duramente, anche alle cinque del mattino, anche quando c’era la possibilità di riposarsi. Presto contagiò i compagni di squadra con questa voglia di allenarsi a tutte le ore del giorno. Un vero e proprio esempio, che portò team Usa ad essere pronto per raggiungere il secondo obiettivo. Il suo motto era vincere ad ogni costo e la sua “Mamba Mentality” serviva particolarmente ad un gruppo che aveva bisogno di vincere a tutti i costi. Alla domanda: “Come mai sei qui?”, Kobe aveva risposto: “Sono stanco di vedervi perdere”. Per lui era una sfida e Bryant era l’uomo giusto per provare a portare a casa la medaglia d’oro.

Team Usa dunque arrivò in Cina con i favori del pronostico, fin qui nulla di nuovo. Questa volta però ci fu il dovere di vincere, più che in ogni altra occasione. La squadra, oltre ai giocatori di cui sopra, era composta da Chris Paul, Chris Bosh, Dwight Howard, Jason Kidd, Deron Williams, Carlos Boozer, Tayshaun Prince e Michael Redd. L’avventura poteva cominciare.

L’inizio

La prima partita è contro la Grecia, che aveva eliminato due anni prima ai mondiali gli americani in semifinale. Una Grecia guidata dalla leggenda Vassilis Spanoulis, oggi allenatore della nazionale ellenica. Dopo un inizio singhiozzante, gli Stati Uniti mettono le marce alte e non ce n’è per nessuno. Difesa, giocate da highlights, stoppate e schiacciate, insomma il Redeem Team riesce a dare subito un segnale forte.

Un’altra partita importante nel girone eliminatorio fu quella contro la Spagna di Pau Gasol, quest’ultimo – all’epoca – compagno di Kobe ai Lakers. La Roja aveva un roster di tutto rispetto, poteva contare su talento, esperienza e fisicità e lo dimostrò nell’arco di tutto il torneo. Alla prima azione offensiva della Spagna però successe qualcosa di particolare. Calderon imposta dalla punta, Rudy Fernandez esce dal blocco in obliquo di Pau Gasol per il tiro da tre punti. Mettiamo in pausa con il telecomando e torniamo indietro. Bryant, prima della partita, aveva avvisato i suoi compagni di squadra: “Andrò contro il petto di Pau Gasol”. Un’affermazione che aveva lasciato attoniti Lebron e compagni, in sostanza il compianto Black Mamba voleva dare un segnale alla prima azione della partita, ovvero che non avrebbe fatto sconti a nessuno, nemmeno al suo compagno ai Lakers. E successe davvero: alla prima azione, Kobe mira al petto di Pau e si scaglia contro di lui come un treno in corsa. Lo spagnolo cade a terra, gira la testa a destra e a sinistra per capire cosa sia successo. Un segnale inequivocabile. Gli Stati Uniti dominarono quella partita, vincendo per 119-82. Chiuderanno il girone B da imbattuti, con 5 vittorie in altrettante partite, davanti a Spagna (4-1), Grecia (3-2), Cina (2-3), Germania (1-4) e Angola (0-5). Nel gruppo A invece la Lituania si collocò al primo posto, seguita da Argentina (4-1), Croazia (3-2), Australia (3-2), Russia (1-4) e Iran (0-5).

Il momento clou

Ai quarti di finale l’Argentina superò la Grecia (80-78), team Usa ebbe vita facile contro l’Australia (116-85), mentre dall’altra parte del tabellone la Spagna superò la Croazia (72-59) e la Lituania si sbarazzò agilmente della Cina (94-68). In semifinale si sarebbe disputato nuovamente il match tra Argentina e Usa, remake di Atene 2004.

L’inizio è folgorante, dato che i ragazzi di coach K avevano qualcosa da dimostrare e decidono di partire in quinta. Il vantaggio aumenta e la partita sembra possa scorrere senza problemi. Poi, Manu Ginobili, stella dell’Argentina e giocatore su cui gli avversari avevano preparato la gara, si infortuna ed è costretto ad uscire dal campo. Scola e compagni si ridestano e provano a rientrare, anche se nel finale non c’è storia. Finisce 101-81 per gli Stati Uniti, che scacciano i demoni, almeno parzialmente, e si guadagnano la finale. Contro chi? La Spagna di Pau Gasol, naturalmente, che nel frattempo aveva battuto la Lituania per 91-86.

Come succederà a Londra 2012, nasce una partita a dir poco stupenda. Da una parte, il quintetto scelto da coach K è quello classico, con Kidd, Bryant, James, Anthony e Howard (e Wade dalla panchina), mentre coach Aito Garcia sceglie Rubio, Navarro, Jimenez, Reyes e P. Gasol (dalla panchina Rudy). Gli spagnoli partono forte e il duo James-Bryant ha già problemi di falli (2 a testa nei primi 4’ di gioco). I due leader in panchina? Niente paura, ci pensa Dwayne Wade. L’ex giocatore degli Heat dà sfoggio a tutto il suo arsenale, segnando da tre e in penetrazione, rubando palloni e mettendo a referto 18 punti nei primi 20’, letteralmente immarcabile. La Roja però risponde colpo su colpo, con Rudy Fernandez che segna triple clamorose da 9 metri e con la mano in faccia. 69-61 all’intervallo lungo: di certo abbiamo visto primi tempi decisamente peggiori. “Non riuscivamo mai a distanziarli”, dice coach K nel documentario “The Redeem Team”, disponibile sulla piattaforma Netflix. E così avviene.

Navarro con il suo classico floater. I fratelli Gasol a colpire da sotto. Rudy Fernandez che non sbaglia un tiro. C’è un’energia in campo che si vede davvero raramente. Un livello di talento pauroso. E dall’altra parte c’è Team Usa. Wade e Deron Williams mantengono avanti i propri compagni nel terzo quarto, poi è il momento di altri campioni. La Spagna torna a -2 (91-89 a 8’ dalla fine) con un Fernandez commuovente, ma Kobe ha altre idee. Un canestro galleggiando e un assist prima, due triple poi, di cui una col fallo dopo il jab-step. Una tripla diventata subito iconica, dato che Kobe “silenziò” il pubblico portandosi il dito di fronte alle labbra, come a dire “silenzio, ci penso io”. È il canestro del 104-99 a 3’ dal termine ed è il quinto fallo di Rudy. La Spagna non si arrende e continua a mettere a referto punti, ma Wade e Bryant la chiudono definitivamente. 118-107 è il punteggio finale. Il Redeem Team ha compiuto il suo dovere, è oro. Le Furie Rosse sono d’argento e che argento. Un’altra finale da consegnare ai posteri.