Dopo il primo avvenuto nel 1993, sei anni dopo ci fu il secondo, storico, ritiro di His Airness, anch’esso non definitivo.
Il 13 gennaio 1999 non fu un giorno come gli altri per gli appassionati dell’Nba e in generale al mondo del basket. Anzitutto, la stagione regolare, normalmente già in corso durante il primo mese dell’anno, non era ancora iniziata a causa del lockout dei giocatori, che bloccò il regolare inizio del torneo. Fu in questa cornice che Michael Jordan lasciò definitivamente i Chicago Bulls, dopo tredici stagioni nell’Illinois, annunciando, per la seconda volta, il suo ritiro. “Non credo di sentire più dentro di me lo stesso desiderio di sfida, la stessa voglia di competizione: so che dal punto di vista individuale, per quello che riguarda la mia carriera, ho raggiunto ogni obiettivo che volevo raggiungere”, queste sono le motivazioni di quello che, già all’epoca, era considerato uno dei più grandi della storia del gioco. Non era la prima volta che Jordan mostrava segni di stanchezza mentale, difatti anche la prima volta le motivazioni addotte dal numero 23 dei Bulls furono all’incirca simili. Approdato a Chicago con la terza scelta assoluta nel 1984, il fenomeno proveniente dalla Carolina del Nord aveva guidato la sua squadra a un clamoroso three-peat tra il ’91 e il ’93, consentendo ai Bulls di diventare campioni Nba per tre anni consecutivi, un’impresa straordinaria per una squadra che prima di allora non era mai riuscita ad ottenere il Larry O’Brien Trophy. Jordan, in tutti e tre i casi era stato il miglior marcatore della lega e l’Mvp delle Finali, prospettando un futuro più che roseo per i Bulls. Tuttavia, il 22 agosto 1993, il padre James Jordan fu assassinato da dei malviventi, che lo assalirono per poterlo derubare. Il fatto causò un dolore terribile nella mente e nel corpo di MJ, che nel tardo ’93 lasciò tutti di stucco annunciando di aver perso la motivazione che lo spingeva a competere a così alto livello. Dietro questa scelta c’era anche la voglia di provare a primeggiare nel baseball, sport amato dal defunto padre.
La carriera sul diamante non andò granché bene per Jordan, che poco più di un anno dopo pronunciò le fatidiche parole “I’m back”, sono tornato. Fu come se non fosse mai andato via. Nel 95-96 i Bulls vinsero 72 partite su 82, un record assoluto superato solo recentemente dai Golden State Warriors. Quello che fece la franchigia di Chicago in quel periodo è già consegnato alla leggenda dello sport: le prime Finals vinte contro i Seattle Supersonics di Kemp e Payton, il flu-game del 1997 in cui Jordan mise a segno 38 punti contro gli Utah Jazz nonostante avesse subito un’intossicazione alimentare la sera prima, per finire con la mitica gara-6 del 14 giugno 1998, con la palla rubata a Malone e il canestro, “The Shot”, a 5 secondi dalla fine che consegnava ai Bulls il secondo three-peat davanti all’ammutolito Delta Center di Salt Lake City. Ancora una volta Michael Jordan era stato il miglior marcatore della Nba e l’Mvp delle finali, chiudendo definitivamente il cerchio. Per questo era forse più preventivabile, ma comunque non meno shockante, il secondo ritiro del campione, in cui lui stesso annunciò che “Non ci sarà mai più nessuno come Michael Jordan”. Tuttavia, MJ lasciò un briciolo di speranza, dato che aggiunse di essere certo 99,9% dell’irreversibilità della sua decisione, decidendo però di tenere ancora in vita una fiammella di speranza nei cuori dei fan. Alla fine lo 0,1% prevalse, dato che, dopo un periodo passato a dedicarsi al golf e alla gestione dei Washington Wizards, dei quali nel frattempo era diventato proprietario, decise di tornare al campo nel settembre del 2001, vestendo proprio la canotta della squadra della Capitale. Non riuscì a portare Washington ai Playoff, ma mantenne comunque una media superiore ai 20 punti a partita nelle ultime due stagioni in blu, prima di ritirarsi, per la terza e ultima volta, nel 2003, a 40 anni, dopo aver firmato una carriera leggendaria sul parquet.