Quando parliamo di dinastie di famiglia un posto d’onore deve essere sicuramente riservato a quella dei “Mazzola“. A partire dal papà Valentino che ha segnato l’epoca storica del grande Torino (così come la triste pagina della sua fine sul Superga), passando per il figlio Sandro bandiera indissolubile dell’Inter. E finendo (forse) con il fratello più piccolo e meno conosciuto, Ferruccio, che pure si è cucito addosso uno scudetto con la maglia della Lazio.
Valentino Mazzola: l’inizio della leggenda
La vita del capostipite della dinastia Mazzola è stata già di per sè una sorta di favola drammatica. Sappiamo quanto gli anni trenta siano stati difficili nel nostro paese, con la depressione che ha costretto molte famiglie e fare salti mortali per tirare avanti.
E la famiglia Mazzola dei tempi non aveva molte disponibilità economiche, tanto che fin dai dieci anni Valentino dovette lavorare duramente per dare una mano, lasciando al calcio i ritagli di tempo di una squadra giovanile (la Tresoldi di Cassano d’Adda).
Il tempo di gettarsi nel fiume Adda per salvare un bambino del paese dalle acque gelate (bambino che poi si scoprì essere Andrea Bonomi, che divenne capitano del Milan), e verso la fine del decennio con la maggiore età arrivò anche quella chiamata alle armi che ne decretò la strada futura.
Destinazione Venezia, sarà proprio lì che anche la sua carriera calcistica prenderà il volo. All’inizio degli anni quaranta, mentre il resto del mondo pensava alla guerra, Valentino esordì in Serie A proprio con il Venezia (era il 31 marzo 1940, contro la Lazio).
Dopo un avvio da riserva, la stagione successiva il nuovo tecnico Rebuffo lo spostò sulla sinistra dell’attacco, decretandone la definitiva esplosione. Tanto da portarsi a casa la Coppa Italia con il Venezia da protagonista e il terzo posto in Serie A l’anno dopo (oltre alla prima convocazione in nazionale).
Una consacrazione che lo portò in maglia granata per aggiudicarsi subito il titolo del ’43, in accoppiata con la seconda Coppa Italia. Annata particolare però, sia per la guerra che portò poi al blocco del campionato, sia per il matrimonio con Emilia Ranaldi con cui i suoi due figli Sandro (nel ’42) e Ferruccio (nel ’45).
La guerra fermò per due anni il suo talento, che riprese però cristallino nel 46 con il secondo scudetto granata a cui ne seguiranno altri tre e con Mazzola capocannoniere indiscusso (in cinque stagioni segnerà sempre almeno 16 reti in campionato arrivando fino a 29).
La stagione terribile però, fu quella del 49. Iniziata già nel peggiore dei modi sia dal lato umano (con tanti problemi familiari che lo portarono a un divorzio non certo sereno), sia in campo sportivo (tanto che saltò anche la prima gara di campionato per dei problemi economici con la società).
Il finale purtroppo, è noto. Il 4 Maggio di ritorno da un’amichevole a Lisbona, l’aereo del Torino si schianta sul Superga togliendo la vita a tutta la rosa di quella che sarà ricordata come una delle più grandi squadre della storia del nostro calcio.
Valentino Mazzola si fermerà quindi a quota 195 presente e 118 gol con la maglia del Torino e sole 12 presenze e 4 gol con la nazionale (con il rammarico di non aver disputato neanche un mondiale a causa della guerra). Ma la sua vita, con gli infiniti aneddoti che lo circondano, sono ormai leggenda.
Di padre in figlio: il mito di Mazzola
Se Valentino è una delle storiche bandiere del grande Torino, ecco che il peso di un così illustre genitore poteva schiacciare anche un talento creativo come quello di Sandro. Che invece riuscirà comunque ad andare oltre il paragone e ritagliarsi una fetta, considerevole, di storia nero azzurra.
Per fortuna la storia di Sandro Mazzola ha tinte molto meno infelici di quella del padre, e racconta più che altro del lato sportivo del grande campione. Arricchito dalle gioie di praticamente tutto quello che c’era da vincere in campo calcistico.
Una storia a senso unico, come unica è stata la maglia che ha indossato per tutta la sua carriera. Diciotto anni di Inter con cui ha giocato alla fine ben 565 partite segnando 158 reti. Eccezioni valide solo per l’azzurro della nazionale, che pure in un momento storico non particolarmente brillante, ha saputo regalare la gioia dell’Europeo vinto nel 1968.
Anche il suo esordio in Serie A fu particolare: 10 giugno 1961, contro la Juventus. La partita finì 9-1 per i bianconeri, ma solo perchè l’allora presidente Angelo Moratti impose a Meazza in panchina di schierare la squadra giovanile (di cui Mazzola faceva parte) come segno di protesta (ed erano solo gli inizi).
Vale comunque per gli annali come esordio ufficiale, anche se solo due anni dopo con Helenio Herrera in panchina, cominciò ad essere stabilmente titolare. Era l’inizio della grande Inter del “mago Herrera”, che arriverà poi a portarsi a casa tre campionati, due Coppe dei Campioni (consecutive) e le rispettive Coppe Intercontinentali. Oltre al titolo di capocannoniere per Mazzola nel 1965.
Solo nel 1977, all’età di trentaquattro anni, Sandro Mazzola appese le scarpe al chiodo diventando una delle bandiere dell’Inter anche dopo il suo addio, in due fasi prima da dirigente e poi come direttore sportivo (prima di chiudere a Torino nel 2003).
In nazionale come detto un titolo Europeo da incorniciare, anche se tutti alla fine ricordano invece decisamente meglio l’eterno dualismo con Gianni Rivera in maglia azzurra e un mondiale, quello del 1970 che ci vide secondi, ma dopo aver giocato quella che è unanimamente definita “la partita del secolo” (Italia-Germania 4-3, con il solito avvicendamento Mazzola-Rivera alla fine del primo tempo…).
Ferruccio Mazzola: all’ombra delle leggende
Non avesse avuto lo stesso cognome di due leggende del calcio, la carriera sportiva di Ferruccio Mazzola (il fratello piccolo di Sandro) sarebbe stata anche onesta e meritevole.
Ci aveva provato, all’inizio, a seguire le gesta dei suoi ingombranti predecessori. Prima nelle giovanili dell’Inter, poi nel Venezia (dove si è fatto le ossa con 50 partite e 13 reti). Ma Ferruccio più che un talentuoso creativo, è un buon operaio, capace di muoversi bene a centrocampo e anche di tentare qualche sortita offensiva.
Per questo la Lazio lo acquista sul finire degli anni sessanta e pur non diventando mai un pilastro inamovibile, mette insieme comunque 85 presente e 11 reti nella massima serie (oltre a una parentesi in maglia Viola in prestito).
Riuscirà anche a cucirsi addosso uno scudetto con i bianco celesti, nel 1974. Peccato che la sua maglia resterà sempre coperta dalla tuta in panchina perchè non scenderà mai in campo in quella stagione. Chiuderà poi la carriera nel Sant’Angelo in serie C, persino una fallimentare chiusura oltre oceano nel campionato americano.