Compie oggi 58 anni l’attuale allenatore del Tottenham, uno dei tecnici più vincenti, amati e odiati di sempre, Mourinho, il vate di Setùbal.
“I think i’m a special one”, penso di essere speciale. Così esordì Mourinho quando arrivò al Chelsea, usando un’espressione che gli è rimasta appiccicata addosso per tutta la sua vita calcistica. Speciale, speciale perché in pochi, pochissimi, sono stati in grado di fare quello che ha fatto lui, lui che non vanta una grande carriera da calciatore alle spalle, ma che è stato in grado di generare un’armonia, un legame così speciale, qua la parola è decisamente azzeccata, con tutti gli spogliatoi che ha allenato, con tutti i giocatori entrati nella sua sfera siano essi campioni oppure no. Mourinho ha sempre usato questa forza mentale per compattare l’ambiente e usare sé stesso come parafulmine, provocando squadre e allenatori avversari, per addensare su di lui tutte le sue critiche. Mou è sempre stato così, non esistono le vie di mezzo: o sei con lui o sei contro di lui. Forza mentale, si diceva. Quella forza e quell’empatia che ha sviluppato da giovane, quando, dopo aver tentato con scarsi risultati di ricalcare le orme del padre calciatore, si mise a studiare diventando professore di educazione fisica, insegnando e allenando per anni ragazzi con cui la connessione psicologica era fondamentale. I suoi inizi in panchina sono da comprimario: negli anni ’90 svolge ruoli da interprete, assistente, vice-allenatore prima di Bobby Robson e poi di Louis Van Gaal in squadre prestigiose, dal suo amato Porto al Barcellona, di cui diventerà strenuo nemico e avversario. José è ancora ignaro di questo quando nel 2000 decide di mettersi in proprio, compiendo due fugaci apparizioni al Benfica e all’Uniao Leiria prima di sbarcare a Oporto nel 2002. Con i dragoes, i dragoni, riuscì a far rimettere sulla mappa del calcio mondiale il Portogallo, Paese le cui squadre erano a secco in Europa da un po’. Il primo anno vinse la Coppa Uefa, oltre che coppa nazionale e campionato con record di punti, il secondo, oltre a bissare il titolo nazionale, lo vede contro ogni pronostico vincitore della Champions League, in una sorprendente finale con i biancorossi del Monaco, battuti 3-0. Storica rimarrà l’immagine della sua esultanza contro il Manchester United, una corsa sfrenata lunga tutto il campo per abbracciare i suoi giocatori. Nel 2004 l’arrivo al Chelsea di Abramovich, squadra in cui il magnate russo sta investendo per riportarla nell’olimpo del calcio inglese. L’ormai Special One non delude le attese, nel 2005 chiude la Premier con 95 punti, una cifra record, riportando ai Blues un titolo che mancava da 50 anni. Gli anni del Chelsea sono quelli in cui entra definitivamente nel gotha del calcio mondiale, vincendo un secondo campionato, due League Cup, una FA Cup e il Community Shield. È mancata solo la Champions League, ma per quello basterà attendere ancora un paio d’anni, quando siederà sulla panchina dell’Inter.
“Io non sono un pirla”. Così inizia la vita nerazzurra di José, che nella sua prima conferenza stampa spiazza tutti con un ottimo italiano e un termine prettamente milanese. Di dichiarazioni memorabili ce ne saranno tante nel primo anno, stagione in cui, grazie anche a un gigantesco Ibrahimovic da 25 gol, l’Inter vincerà in scioltezza il suo quarto campionato consecutivo. Da Lo Monaco a “Barnetta”, dall’esultanza di Siena alla prostituzione intellettuale, per finire con i famosi “zero titoli” con cui etichettava le stagioni delle grandi rivali Milan, Juve e Roma, attaccandone i tecnici Ranieri e Spalletti. Gli interisti lo amano, tutti gli altri non vedano l’ora che cada. Ma Mourinho e l’Inter non cadono, anzi: nel 2009, con l’addio di Ibra e l’arrivo di Milito, Eto’o, Sneijder, Lucio e Motta, i nerazzurri partono alla volta della migliore stagione della loro storia, culminata con il Triplete: quinto scudetto di fila, Coppa Italia e terza Champions League, 45 anni dopo l’ultima volta. Impossibile scordare la corsa con indice alzato di Mourinho in un Camp Nou gremito dopo l’impresa in semifinale, e poi la notte del Bernabeu. È l’apoteosi: tutti festeggiano, ma c’è un uomo che piange. È Materazzi, leader carismatico della squadra, che sa che quella è l’ultima di Mourinho con il Biscione. Il 22 maggio 2010 José decide di rimanere a Madrid, per guidare il grande Real. Periodo difficile: Il Barcellona è la migliore squadra al mondo, e al primo appuntamento rifila cinque schiaffi ai blancos. In semifinale di Champions i blaugrana fanno fuori Mou, che inizia lo show, domandandosi “porqué” il Barça è sempre favorito. Si rifarà vincendo la Coppa del Re, 18 anni dopo l’ultima volta, e anche il campionato, nel 2012, con l’incredibile cifra di 100 punti. Lascia nel 2013, solo quando l’ambiente è dilaniato dalla lotta col Barcellona, soprattutto gli spagnoli, come Casillas, lo accusano di aver spostato l’asticella troppo in là, come nel caso del dito nell’occhio al compianto Vilanova. Gli anni successivi sono quelli del ritorno in Inghilterra, prima di nuovo al Chelsea, dove rivince la Premier League, ma fallisce di nuovo la conquista della coppa dalle grandi orecchie, da cui viene eliminato per il quinto anno di fila in semifinale. Successivamente guida prima il Manchester United, dove ritrova Ibra e con cui rivince l’Europa League, e infine il Tottenham, altra squadra di Londra, dove subentra a Pochettino nel novembre 2019 chiudendo sesto, mentre quest’anno è ai piani alti della classifica. Nella sua Setùbal gli hanno consegnato le chiavi della città e intitolato una via, in modo da cristallizzarne già da ora il ricordo. Comunque vada, José Mourinho è un uomo che ha scritto il suo nome nella storia del calcio. Anche grazie al rumore dei nemici, da lui spesso evocato.