Sono 46 gli anni compiuti oggi dalla guardia tiratrice del Nord Carolina, protagonista nella lega americana per oltre un decennio.
Jerry Stackhouse è stato un grande cestista, su questo non ci sono dubbi. Ma cosa sarebbe potuta essere la sua carriera con un po’ di fortuna in più, sia nelle scelte, che negli infortuni capitatogli? Era uno dei migliori giocatori della lega a cavallo del terzo millennio, venendo anche selezionato due volte di fila nell’All Star Game dell’NBA, un autentico certificato di qualità. Non sempre però si riesce a conquistare tutto ciò che si vorrebbe, ma Stack, così veniva soprannominato, è riuscito comunque a lasciare il segno nel maggiore campionato di basket al mondo, pur non riuscendo mai a vincere l’anello, riservato ai vincitori dei Playoffs. Classe ’74, originario di Kinston, ben presto gli osservatori si interessano a lui. Neanche ventenne partecipa al McDonald’s All-America, competizione riservata solo ai migliori giocatori dello Stato che frequentano le high school, le nostre scuole superiori. Si iscrive nello stesso anno alla North Carolina University, ateneo del suo Stato natale, e le aspettative crescono di più, dato che dieci anni prima da quelle parti vi era un certo Michael Jordan. Entrambi guardie tiratrici, entrambi con la passione per il baseball (il caratteristico numero 42 di Stackhouse è un tributo a Jackie Robinson, primo afroamericano nella MLB), stesse speranze che Jerry riporti la squadra collegiale dei Tar Heels al titolo. Non successe, ma Stackhouse si aggirò intorno ai 20 punti di media a partita, tant’è che dopo soli due anni si dichiarò eleggibile al Draft del 1995, venendo chiamato con la terza scelta dai Philadelphia 76ers. Con la squadra della Pennsylvania si mette in mostra il primo anno, ma la franchigia è in uno dei periodi peggio della sua storia e ottiene la miseria di 18 vittorie. L’anno dopo, con la scelta numero uno, verrà chiamato Allen Iverson, l’uomo che cambierà la storia di Phila, restando dieci anni e portando i Sixers alle Finals nel 2001. Il rapporto non decolla, in squadra non c’è spazio per entrambi, così Stack nel 1997 decide di passare a Detroit.
Nella Motor City inizia a imporsi, formano una coppia temibile con la superstar della squadra Grant Hill. Nel 2000 gioca tutte le partite, ma i Pistons escono subito, al primo turno dei playoff. Nel momento in cui Hill decide di emigrare a Orlando, Stackhouse diventa il perno della squadra, arrivando a sfiorare i 30 punti a partita nel 2001. Di soddisfazioni personali ancora poche però, il massimo risultato, prima di cambiare aria, rimarrà il secondo turno dei playoffs 2002. Passa ai Washington Wizards, dove realizza un sogno: si ritrova infatti nella squadra capitolina in quella che è la stagione di addio al basket di Michael Jordan, un autentico modello per Jerry. Anche qui le cose non vanno benissimo, a detta dello stesso Stackhouse, che racconta di come Jordan, nonostante fosse nel suo ultimo anno e quindi non atleticamente al top come lui, si prendesse molti tiri, spesso a suo discapito, non consentendogli di esprimersi al meglio. I Wizards di fatto non arriveranno neanche alla post-season, tuttavia, una volta salutato Jordan, Stackhouse rimane vittima di un brutto infortunio nell’anno successivo, vanificando le speranze di guidare la squadra il più avanti possibile. Passa quindi a Dallas, dove rimane cinque stagioni mostrandosi come un giocatore affidabile, ma non più di prima fascia. Riesce tuttavia a raggiungere le Finals, nel 2006, ma a spuntarla sono i Miami Heat. Squadra a cui approderà, dopo una parentesi ai Milwaukee Bucks, nel 2010, nell’anno in cui James, Wade e Bosh andranno a vincere l’anello. Anche qua la fortuna gli ride in faccia: dopo 7 partite viene tagliato per far spazio a Dampier, sostituto dell’infortunato Haslem. Saluta la NBA nel 2013, dopo aver vestito le casacche anche di Atlanta Hawks e Brooklyn Nets, squadra con cui canterà anche per l’ultima volta l’inno americano prima della partita, consuetudine statunitense concessagli in virtù delle sue notevoli doti canore. Tuttora fa l’allenatore, cercando di insegnare ai ragazzi l’amore per il basket, che nonostante gli abbia dato e tolto tanto, rimane sempre la sua passione.