Chi conosce il mondo del calcio virtuale, di certo conosce il nickname “Lamella“. Chi poi ha seguito su Tim TV o via Twitch le partite della e-nazionale italiana di FIFA avrà visto Lamella anche in video.
Dietro a quel nickname c’è infatti Simone Sfolcini, storico uomo-eSport italiano. Storico nonostante l’età sia tutt’altro che avanzata. 35 anni, milanese, Sfolcini calca la scena competitiva del nostro Paese da quando il termine eSports da noi forse non si usava ancora, i tornei erano in LAN e di gaming house non se ne vedevano proprio.
In questi quasi vent’anni di presenza continua, Lamella è stato un po’ di tutto: da giocatore a caster, da community manager a event manager, da streamer a coach. Insomma, uno che di storia esportiva italiana ne sa, perché l’ha osservata da punti di vista diversi.
Ci siamo affidati a lui per farcene raccontare almeno una parte. E come potrete leggere nell’intervista che segue, Lamella non ha peli sulla lingua quando si tratta di eSports!
Ciao Simone e grazie per la tua disponibilità. Ci racconti come hai esordito nel mondo dei videogame?
Ciao a tutti! Ho iniziato come giocatore competitivo, prima su Medal of Honor e poi su Call of Duty, la prima edizione del gioco. Era più o meno il 2003 e l’inizio è stato positivo a livello di risultati. Il “clan” (oggi si direbbe “team”) con il quale giocavo ha vinto due volte le ESL Pro Series di CoD, i campionati italiani di quel periodo. Nel frattempo mi sono dedicato anche a Pro Evolution Soccer.
Com’era il settore competitivo allora?
Molto diverso da quello che conosciamo oggi. In un certo senso era più amatoriale, nasceva dalla passione per i videogame. Il quadro era quasi sempre questo: un gruppo di amici che si allenano insieme, sono abbastanza bravi e trovano uno sponsor che li aiuta a partecipare ai primi tornei. Economicamente parliamo di cifre minime, perché le grosse società multigaming che oggi investono tanti soldi, come Mkers e QLASH, ancora non esistevano. Più o meno l’inizio è stato così anche per i futuri Fnatic e Team Liquid.
Tu però non sei rimasto solo un giocatore, hai deciso di fare un percorso diverso. Quando e come è arrivata la prima svolta?
Sì, esatto, anche perché non era possibile vivere solo giocando. Finite le superiori, dopo aver fatto qualche lavoretto a Milano, ho iniziato a collaborare con ESL ProGaming, azienda di vertice nell’organizzazione dei tornei esportivi. Nel 2008 mi hanno assunto e così mi sono trasferito a Bolzano, dove ha sede la società.
Per ESL ho ricoperto vari ruoli. Ho cominciato come “collante” tra il settore community e la communication. Scrivevo per un blog, dove tenevo aggiornati gli utenti sulle iniziative di ESL. Il problema è che proprio quell’anno è calata la mannaia della crisi economica. ESL ha dovuto privarsi di quasi metà dello staff. Io sono rimasto, ma a quel punto mancavano persone per far andare avanti la macchina organizzativa. E così mi hanno detto: “conosci il gioco competitivo e sei in contatto con la community, i tornei sono il tuo nuovo settore”.
Giocatore, esperto di comunicazione esportiva, event manager. E sono tre ruoli. Il successivo?
Spesso agli eventi live di ESL dovevo fare anche il presentatore, il caster. Un ruolo che mi è rimasto attaccato fino ad oggi, visto che sono tuttora commentatore per gli eventi di e-calcio. Tornando a quel periodo, ad un certo punto è successa una cosa particolare. Dal momento che conoscevo bene la community dei giocatori, soprattutto quella di FIFA, nel 2011 mi viene chiesto di fare da accompagnatore alla nazionale italiana che partecipa alle Olimpiadi in Corea. Per FIFA in quella nazionale gioca la “stella” Mattia Guarracino. Ci conoscevamo già, il nostro rapporto era buono e così ho iniziato a dargli una mano con gli allenamenti e la preparazione mentale in vista dei match. E’ successo per la spedizione in Corea, ma anche ai Mondiali in Cina e all’Europeo in Polonia.
E’ nato il Lamella-coach.
Esatto. E per fortuna, in un certo senso, perché un po’ alla volta il lavoro nell’organizzazione dei tornei mi aveva esaurito. Nel 2017 ero ormai in burnout e mi sono licenziato da Pro Gaming. L’alternativa è diventata la combo coach-caster-streamer, quest’ultimo ruolo soprattutto per il card trading di FUT.
Nel 2018, al campionato italiano di FIFA, ho incontrato Diego Campagnani che giocava già per il team QLASH. Diego vince il torneo ma ha bisogno che qualcuno lo segua in vista dei Playoff ad Amsterdam. Mattia Guarracino, ancora lui, gli fa il mio nome. A quel punto arriva la chiamata di Luca Pagano, co-owner di QLASH, che mi offre di entrare nella sua organizzazione.
Oggi, oltre a collaboratore freelance di ESL, sono ancora coach di Diego all’interno di QLASH. E’ con lui che ho raggiunto la soddisfazione più grande nel ruolo di allenatore: il titolo di campione del mondo vinto su FIFA20.
Quali sono le qualità che deve possedere un coach di FIFA?
Deve saper lavorare sulla testa del giocatore. Non puoi pensare di insegnare a un pro player come si gioca, cioè la tecnica, ma puoi aiutarlo sulla parte mentale (mindset) e sulla tattica. Il giocatore deve visualizzare cosa potrebbe succedere durante la partita e imparare a gestire mentalmente le situazioni difficili. Negli eSports, la testa è la chiave per il successo.
Hai visto quasi 20 anni di eSports, com’è cambiato il settore nel nostro Paese?
Guardando i numeri, dovrei rispondere in meglio. Ci sono più appassionati, più giocatori, sono arrivate le società esportive e le gaming house. Anche il giro del denaro è aumentato parecchio. Eppure, per me “si stava meglio quando si stava peggio”.
In che senso?
Oggi le community non sono unite come una volta. Si è perso lo spirito ludico, il divertimento, la voglia di incontrare altre persone e stare insieme. Il gioco si è fatto più competitivo? Forse, ma la professionalità è solo apparente. I giocatori, in particolare, hanno pretese sempre più alte ma non hanno voglia di fare sacrifici. Per la mia generazione è stato tutto più difficile. La verità è che tanti player di oggi non se la sono sudata.
Dalle tue parole emerge un quadro esportivo dai toni abbastanza grigi. Cosa serve per renderli più brillanti?
Ci vuole molta più competenza. In Italia tutti devono fare uno step in avanti perché siamo troppo indietro rispetto ai Paesi leader in questo settore. Dobbiamo prendere esempio dall’estero, dove c’è professionalità vera.
Il problema non riguarda solo i giocatori, ma anche un problema cronico delle società esportive italiane. Da noi i team seri sono pochi. La maggior parte sono meteore: compaiono all’improvviso, durano pochi anni durante i quali fanno danni (soprattutto economici) e poi spariscono. Su questo terreno il sistema eSports non può crescere.
Ritieni che le federazioni possano aiutare in tutto questo?
No. Negli anni c’è stato un proliferare di federazioni, ma è stato tutto inutile, anzi dannoso. Il problema è che quasi sempre sono gestite da persone che non conoscono il mondo dei videogame competitivi. Manca l’esperienza. Il Presidente di una federazione può anche essere una figura esterna, ma non i suoi collaboratori. Io credo che anche il riconoscimento del Coni non serva granché al settore.
E la politica, invece, potrebbe fare qualcosa in più?
La politica sì. Potrebbe favorire gli investimenti e soprattutto alleggerire la burocrazia, anche solo quella che c’è per organizzare un torneo. Carte, notai, soldi da spendere che vengono tolti al montepremi…
Volendo azzardare una previsione, come vedi il futuro degli eSports in Italia?
Guarda, sono anni che sento dire “questa è la volta buona” e poi il salto di qualità non arriva. Purtroppo non sono molto ottimista, perché non credo che nei prox 5 anni raggiungeremo né la Germania né la Spagna. In Italia il pubblico c’è, ma manca la professionalità.
Io però non mollo. Questo è il mio lavoro, la mia passione e soprattutto il mio mondo. Ancora per un po’ mi troverete nel bel mezzo degli eSports!
Foto di testa: Simone “Lamella” Sfolcini (per gentile concessione di QLASH)