Da un po’ di anni a questa parte, il mondo degli sport tradizionali ha puntato lo sguardo sui videogame competitivi.
I primi ad accorgersi delle potenzialità degli eSports sono stati i grandi professionisti a stelle e strisce. Non se ne sono solo accorti, ma hanno anche messo mano al portafogli.
A cominciare da Rodger Saffold (NBA), che nel 2014 ha fatto da apripista tra gli investitori sportivi, per arrivare a Shaquille O’Neal e Magic Johnson (NBA), passando per Rick Fox (NBA) e Alex Rodriguez (MLB). Solo per fare qualche nome.
Il modello è poi approdato in Europa e in Sudamerica, dove a fare la parte del leone sono tuttora le stelle dei motori (Fernando Alonso, Max Biaggi, Rubens Barrichello) e soprattutto quelle del calcio.
Oggi, la maggior parte delle società professionistiche europee di calcio dispone di un proprio settore esportivo. Quando gli eventi dal vivo sono andati in stand-by a causa della pandemia, molti sport hanno iniziato la ricerca di nuove forme di visibilità. Ad esempio le Serie A, B, C e D italiane che hanno attivato i rispettivi campionati di e-calcio .
La visibilità offerta dagli eSports è stata probabilmente la più gettonata. E sull’altro versante, quello delle organizzazioni esportive, qualcuno ha intuito le potenzialità di questa nuova sinergia. Il caso più evidente è costituito da QLASH.
L’organizzazione con sede a Treviso, infatti, ha subito puntato moltissimo sull’attrattiva che gli eSports esercitano sullo sport. E i risultati sono visibili.
Pochi giorni fa, sulla pagina Linkedin di QLASH, è apparso un comunicato ufficiale che annuncia l’ingresso in società di 6 nuovi investitori, tutti provenienti dall’agonismo sportivo di alto livello. Quattro calciatori (Davide Zappacosta, Davide Baselli, Marko Rog e Victor Camarasa), la campionessa olimpionica di pallavolo Francesca Piccinini e il fighter MMA Marvin Vettori.
Ma qual è il vantaggio per chi investe negli eSports? E ancora, di cosa è fatto il business delle società che operano in questo settore?
Sono due tra i vari interrogativi che abbiamo rivolto a Luca Pagano, CEO e co-founder – insieme a Eugene Katchalov – proprio di QLASH.
Ciao Luca e grazie per essere qui con noi. Cominciamo proprio dal quesito principale: perché gli eSports sono interessanti per lo sport tradizionale?
Un saluto a tutti e grazie per l’opportunità. Il fattore che più di tutti avvicina gli sportivi agli eSports è la similarità tra i due mondi. A guardarli bene, si scopre che gli elementi cardine sono gli stessi: l’aspetto agonistico, l’organizzazione dei tornei, i diritti televisivi, le attivazioni, gli sponsor. I campioni dello sport magari non conoscono le specificità del settore, ma trovano comunque le dinamiche che già conoscono e di cui fanno parte. In altre parole si sentono a casa, molto di più di quanto avviene con altri tipi di investimento.
Qual è il loro obiettivo: solo visibilità o anche profit?
Sicuramente la possibilità di realizzare un guadagno è al primo posto. Spesso non sono eccessivamente sofisticati quando si tratta di analizzare il “momento economico” di una società; tuttavia ne capiscono le potenzialità, si rendono conto che il settore è in crescita e scelgono di puntare su qualcosa che non è troppo estraneo a loro.
A voler essere sinceri, alcuni sono più spaventati dalla visibilità. Temono che, in caso di una performance scadente sul campo, tifosi e club li possano accusare di aver dedicato troppo tempo ai videogame e troppo poco ad allenarsi. D’altra parte quasi tutti giocano, soprattutto a Call of Duty!
A proposito di immagine, come sono percepiti gli esports in Italia? Ci sono ancora molte resistenze?
A mio avviso la situazione è migliorata rispetto al pre-pandemia. Esistono ancora dei preconcetti, anche se l’attenzione nei confronti dell’addiction al gioco è giustificata. I casi purtroppo ci sono.
Il balzo in avanti più importante lo hanno fatto le istituzioni che ora sono più consapevoli delle potenzialità – quelle positive – degli eSports. C’è però ancora del lavoro da fare. Manca una legge ad hoc che regoli le professioni del settore. Lo stesso dicasi per i tornei, dove si naviga ancora un po’ a vista per quanto riguarda la possibilità di erogare premi, in che forma e per quale valore.
Rimaniamo nell’ambito del “vile denaro”. Come guadagna l’investitore di una società esportiva?
Ad un nuovo potenziale investitore io dico subito che si tratta di un business che brucia cassa. I mezzi per avere entrate ci sono (sponsor, eventi, affiliazioni, vendita prodotti), ma mantenere un’organizzazione esportiva costa parecchio. Per contro, è un settore che gode di un moltiplicatore elevato, soprattutto in relazione alle entrate. In altre parole, i soldi escono ma se cresce il fatturato, il valore della società aumenta ancora di più. Quello è il momento in cui conviene monetizzare: il profitto arriva quindi in “fase di exit“, cioè con la vendita di quote o dell’intero pacchetto azionario.
Chi sono gli acquirenti di una organizzazione esportiva di livello medio-alto?
A volte sono le organizzazioni esportive di livello mondiale, quelle che rappresentano la “major league” degli eSports. Oppure possono essere grandi gruppi esterni al settore. Ad esempio colossi della big tech come Amazon, che da anni sta investendo sul campionato esportivo universitario (Amazon University Esports), o aziende che puntano sulla produzione di contenuti media. Ritengo però che le più interessate siano le grandi società sportive, per le quali è fondamentale comprare l’attaccamento dei più giovani a un brand, oggi sempre meno legato alla maglia.
Concordi quindi con quanto ha dichiarato Alessandro Antonello, CEO dell’Inter, ovvero che gli esports servono per dialogare con i giovani?
Sì, sono assolutamente d’accordo. Oggi, per tanti giovani il calcio è più quello di Electronic Arts o di Konami che quello che si gioca negli stadi. E gli eroi del pallone sono quelli che si acquistano nel fantacalcio digitale di Sorare.
D’altra parte, i videogame offrono dinamiche di intrattenimento molto più rapide rispetto allo sport tradizionale e quindi più in linea con i ritmi di informazione ai quali sono esposti soprattutto i giovani. Non intendo esprimere un giudizio su questo fenomeno, ma sono convinto che il motivo della disaffezione dei giovani verso il calcio sia principalmente questo.
Fino a qui abbiamo parlato del rapporto tra videogame competitivi e sport tradizionali. Tu però nel 2017 hai chiuso una carriera quasi ventennale nel poker professionistico: come e perché è nata l’avventura negli eSports?
Sono sempre alla ricerca di nuove opportunità di business, e quando ho conosciuto il mondo degli eSports ne sono rimasto subito affascinato. Per mesi ho studiato e analizzato il settore, sono andato sul campo a vedere come venivano organizzati gli eventi – ricordo ancora con entusiasmo il torneo di League of Legends a cui ho assistito assieme a Eugene (Katchalov, anche quest’ultimo professionista di poker, ndr) a Las Vegas – e alla fine ho deciso di fondare un team competitivo. Anche se devo dire che QLASH è molto più di un team eSports.
In che senso?
Voglio dire che l’aspetto competitivo è importante per QLASH ma non è più al primo posto, ormai da un po’ di anni. Adesso siamo molto concentrati sulla creazione di contenuti – e per questo stiamo puntando su influencer di valore – e sulla organizzazione di eventi, sia online che live. Questi tre elementi, cioè la competizione, i contenuti e l’organizzazione, parlano fra loro e offrono a chi ci segue un’experience completa e altamente fidelizzante. E’ una cosa che ho imparato dal mondo del poker.
Ci stai raccontando di un forte continuità tra poker ed eSports: è così?
Su questo non ho dubbi. In fondo le dinamiche sono le stesse. Per vincere a poker serve una profonda conoscenza delle meccaniche del gioco, oltre a un mindset di ferro capace di tenerti in equilibrio sia quando le cose vanno male sia quando vanno troppo bene male. Passione, studio e forza mentale fanno la differenza tanto nel poker quanto negli eSports. Ecco, sostituisci “poker” con “eSports” e la validità dei concetti rimane inalterata. L’affinità tra questi due settori del gioco competitivo è probabilmente quella che ci ha permesso di trovare investitori anche nel mondo del poker: parlo di Daniel Negreanu, Phil Hellmuth, Dan Cates e Jeff Gross.
Non c’è da sorprendersi se un giocatore di poker si diverte con i videogame e un esporter si dedica anche al Texas Hold’em o qualche altra variante. Mi viene facile immaginare un festival dei giochi, una convention dove unire poker e eSports. Chissà, forse in futuro questa idea potrebbe concretizzarsi…
Sei stato giocatore di poker, ma prima ancora di backgammon e di scacchi. Adesso gestisci una società di eSports. Perché il gioco è così importante per te?
Più che il gioco in sé e per sé, credo che per me sia importante il fattore competitivo: non necessariamente o solamente battere l’avversario o gli avversari – che per carità, è sempre una sensazione splendida – quanto mettersi in competizione con se stessi per superare limiti e obiettivi.
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