I videogiochi ai quali siamo abituati a pensare oggi sono piccoli gioielli di tecnologia, in constante evoluzione e soprattutto portatili. Molti di loro oggi hanno anche una scena competitiva, e sono quindi diventati eSports.
Ma il percorso per arrivare a questo tipo di prodotti è stato lungo e non sempre privo di ostacoli.
La storia dei videogiochi ha infatti radici lontane, collocabili più o meno all’inizio degli anni ’60. In quel periodo fa la sua comparsa il videogame Spacewar! realizzato da Steve “Slug” Russell. Una semplice sfida tra due navicelle spaziali che getta le basi per lo sviluppo dei futuri giochi digitali. Da lì in avanti il settore videoludico comincia a prendere forma, fino all‘arrivo dei giochi arcade che hanno caratterizzato il ventennio che va dai primi anni Settanta alla fine degli anni Ottanta.
Ma i giochi arcade sono una cosa molto diversa dalle console, dai computer e in generale dal concetto di videogioco “mobile” a cui siamo abituati oggi. Gli arcade erano (e sono ancora) “cabine” stazionarie di gioco, dotate di schermo, joystick (o altro device) e un po’ di tasti. Per giocarci era necessario recarsi in una delle tante sale giochi spuntate come funghi in quel periodo.
La vera rivoluzione, intesa come base per i videogiochi di oggi, è rappresentata dalle prime console per videogame. Apparecchi molto più ridotti in termini di dimensioni rispetto agli arcade, utilizzabili più o meno ovunque ci sia una presa di corrente e dotati di slot per l’inserimento delle “cartucce” dei giochi. Trasportabilità e opzione multi-gioco sono le grandi novità delle console rispetto ai videogame arcade.
Siamo più o meno nella seconda metà degli anni ’70 e le console trasformano il mercato videoludico. Tutti, soprattutto nel Nord America, impazziscono per la novità e l’industria delle console fiorisce. Parliamo di marchi divenuti storici, quali Atari, Intellivision, Coleco, Phillips, che realizzano profitti impensabili fino ad allora per il settore videoludico. E il trend prosegue, va avanti per alcuni anni. Poi succede qualcosa di inaspettato.
E’ il 1983 e all’improvviso il mercato delle console entra in crisi. Non una crisi leggera, superabile in un breve lasso di tempo, ma sistemica: le persone non comprano più né console né giochi. In tre anni, tra il 1983 e l’inizio del 1986, il giro d’affari si riduce del 97%. Per molti economisti il settore è finito. Per i detrattori non è mai esistito: i videogame sono sempre stati una bolla che ora è esplosa.
La recessione colpisce soprattutto il Nord America, obbligando molte aziende di videogiochi a chiudere. Per questo motivo il crollo del 1983 è chiamato anche “grande crisi nordamericana dei videogame” (Great North American Video Game Crash), mentre in Giappone è conosciuto come “Atari shock“, a sottolineare l’enorme colpo subito dall’allora leader di mercato.
La grande azienda americana – che ha chiuso i battenti nel 2013 ed è risorta da poco come Atari Token – seppellirà (letteralmente) milioni di copie di videogiochi invenduti in una cittadina nel deserto del New Mexico, Alamogordo.
Ma come si giustifica un collasso così repentino e inaspettato?
Ci sono più ragioni, come quasi sempre accade nella storia dell’economia. Gli esperti ne hanno identificate tre.
SATURAZIONE DEL MERCATO
Già nel 1983 gli appassionati si trovano sommersi da dozzine di console diverse. L’offerta è sovrabbondante: le aziende vedono il business e si buttano a capofitto nel mercato. Tra queste ci sono ottimi brand ma anche molti che si improvvisano creatori di console e videogiochi. I loro prodotti sono quasi sempre scadenti.
Le troppe console sul mercato creano anche un altro problema, altrettanto determinante. A differenza di quello che succede oggi, chi gioca su una console non può utilizzare i giochi di un’altra e viceversa. La conseguenza è una frammentazione della “community” che fa venire meno la voglia di comprare. Immaginiamo, ad esempio, di avere appena speso un bel po’ di soldi in una console Coleco, ma poi scopriamo che tutti i nostri preferiscono Atari. C’è ancora la voglia di dedicare tempo e investire soldi nell’hobby dei videogiochi? Probabilmente no.
PERDITA DI CONTROLLO SULLA QUALITA’
Il momento d’oro delle console spinge a produzioni sempre più massicce di videogiochi. La aziende ne realizzano tanti e in tempi sempre più ridotti. Impossibile mantenere un elevato livello di qualità. E soprattutto diventa impossibile per i produttori di console monitorare quello che viene realizzato per loro. Anche perché, nel frattempo, un tentativo di Atari di portare in tribunale la richiesta di regolamentazione del settore fallisce.
A questo punto c’è il precedente: tutti sono liberi di cimentarsi in un ambito – per lo più sconosciuto – ma che promette soldi facili. Per ottimi produttori come Activision, ne arrivano alcuni di totalmente improvvisati, come Quaker Oats (settore cereali) e Purina Dog Food (cibo per animali) che creano o acquisiscono dipartimenti per la produzione di videogame. I risultati sono disastrosi.
A farne le spese è sopratutto Atari che incappa in due flop giganteschi: il Pac Man per console e soprattutto il videogame di ET, considerato ancora oggi il più brutto prodotto mai realizzato nella storia di questo settore. Di qui la già citata distruzione dei milioni di copie e l’etichetta “Atari shock” appioppata in Giappone alla crisi americana.
Tutto questo si traduce in una perdita di fiducia da parte dei clienti e in un crollo dei prezzi: giochi che solo pochi anni prima venivano venduti a $35 finiscono adesso alla rinfusa nelle ceste dei negozi al prezzo di $5.
L’ARRIVO DEI PERSONAL COMPUTER
La mazzata finale arriva da un nuovo prodotto, molto più duttile e completo. Negli stessi anni in cui inizia la crisi delle console, cominciano a circolare i primi personal computer. Ci sono il Vic20, il Commodore 64, lo ZX Spectrum e tanti altri. Con i personal computer si può giocare ma anche fare altro, persino imparare le basi della programmazione (BASIC).
Anche nel caso dei computer c’è concorrenza tra le varie marche, e questo porta ad una riduzione del costo per acquistarli. Nel 1983 il prezzo di un PC è quasi uguale a quello di una console. Tanti consumatori optano per il nuovo, e più duttile, arrivato.
Per le console sembra arrivato il momento del GAME OVER.
Ma nel 1986 entra in scena Nintendo. L’allora presidente Hiroshi Yamauchi dichiara che “il collasso di Atari è dipeso dal fatto che è stata data troppa libertà agli sviluppatori esterni di videogame, i quali hanno sommerso di immondizia il mercato“.
Un’affermazione forte e che non riguarda solo Atari, ma senza dubbio corretta. Nintendo si pone a capo di una nuova strategia di mercato, molto semplice ma altrettanto efficace: produrre meno e meglio. La chiave è un circuito integrato di controllo (CIC) che impedisce a sviluppatori esterni non autorizzati di creare giochi per il Nintendo Entertainment System (NES).
Ogni prodotto Nintendo passa quindi attraverso il vaglio della casa madre che ne garantisce la qualità. In questo modo, e anche grazie alla creazione di una “Garanzia ufficiale Nintendo”, l’azienda nipponica riesce a riconquistare la fiducia del mercato e a riportare in auge i videogame della seconda generazione di console, quella inaugurata proprio dal NES. Di fatto, la nuova strategia conduce il settore fuori dalla grande crisi iniziata nel 1983.
Nintendo diventa così la prima azienda di console e videogiochi anche in Nord America, con una quota di mercato pari al 70% e 2,3 miliardi di dollari di fatturato solo nel 1988. Un risultato che sancisce anche lo spostamento della leadership a livello mondiale in questo settore, dagli Stati Uniti al Giappone.
Non si può, tuttavia, fare a meno di sottolineare come l’operazione di Nintendo si sia tradotta in un vantaggio di cui hanno beneficiato tutti: mercato, appassionati, le altre aziende e anche il futuro stesso dei videogame.
Per chi volesse approfondire l’argomento della grande crisi dei videogame del 1983, il rimando è alla pagina di Wikipedia e ai primi capitoli della docu-serie High Score (su Netflix).
Immagine di testa: console Atari 2600 in produzione dal 1977 al 1992 (credits Wikipedia)