In un periodo in cui i rapporti diplomatici, e soprattutto commerciali, tra USA e Cina fanno tornare alla memoria il periodo della Guerra Fredda, anche gli eSports diventano oggetto di contese politiche.
Chiariamolo subito: per una volta il Presidente Trump non c’entra. Rimane invece la Cina, che si trova come antagonista l’India. Il pomo della discordia è il videogame competitivo PUBG, nella versione per dispositivo mobile.
PlayerUnknown’s Battlegrounds è uno dei titoli più gettonati in India, soprattutto tra le giocatrici, al punto tale da aver sollevato perplessità tra gli organi scolastici, i quali vedono nell’eccessivo utilizzo del cellulare per fini ludici una causa dell’abbassato rendimento scolastico tra i giovani. Va detto che anche in Cina PUBG ha subito forti limitazioni, in questo caso per il troppo sangue presente nel gioco: il governo cinese ne ha censurato la versione standard, sostituendola con una più ridimensionata sotto il profilo della violenza e anche nel nome, che è cambiato in Game for Peace.
Su questo piano, cioè quello sociale, India e Cina sembrerebbero quindi Paesi allineati, anche se per motivazioni diverse. Dove starebbe quindi la contesa? In tutt’altro campo, quello dello spionaggio.
Il governo indiano teme infatti che l'”invasione” di app made in China possa nascondere manovre in grado di violare la privacy dei propri cittadini, tentativi di sottrarre informazioni e dati per scopi commerciali, se non addirittura politici. Nuova Dehli ha già bloccato 60 app per mobile realizzate in Cina (tra questi ci sono TikTok e UC Browser) e sta pensando di impedire l’utilizzo di molte altre, per un totale che supera quota 250.
Non solo. Il governo indiano ha varato un provvedimento per il quale i server di gioco devono essere situati solo in India, Singapore, Hong Kong e Usa.
Nella lista nera potrebbe finire anche PUBG che per il momento, tuttavia, gode di uno status particolare. Se da un lato è vero che la versione del gioco per sistema mobile è proprietà della multinazionale cinese Tencent, ci sarebbe la matrice sudcoreana dello sviluppatore, Bluehole, a salvare per ora PUBG dal ban sul territorio indiano.
Gli appassionati indiani di PUBG possono quindi continuare a giocare, con la certezza che i loro dati non saranno sottratti da qualche spia grazie al blocco sui server cinesi. Ma non è da escludere una ritorsione da parte di Pechino che potrebbe condurre ad un’escalation di tensioni tra i due Paesi nel campo dei videogiochi.
La domanda è sempre la stessa: cui prodest? A nessuno, ovviamente. Se il contrasto dovesse acuirsi, Tencent perderebbe un enorme bacino di utenti-clienti, mentre i giocatori indiani potrebbero essere esclusi dagli “ecosistemi” non solo di PUBG, ma anche di Call of Duty, Clash Royale e Brawl Stars, così come di titoli del publisher Riot Games (Valorant, ad esempio), acquisito nel 2015 dal colosso cinese. Il tutto con un effetto negativo a cascata su industrie, media, posti di lavoro.
Sembra assurdo, ma succede anche questo.