Nonostante gli eSports siano in continua espansione, il settore dei videogiochi competitivi è ancora privo di una legislazione specifica vera e propria.
Qualcosa ha iniziato a muoversi di recente, con numerosi studi legali e organi istituzionali impegnati nella ricerca di un corretto inquadramento giuridico. Probabilmente l’ulteriore crescita che gli eSports stanno avendo “ai tempi del coronavirus” sta facendo comprendere l’importanza di questo mercato, ma il gap da colmare con gli sport tradizionali e con altre “discipline” come gli scacchi o il biliardo, rimane ampio.
Prendiamo la situazione italiana, ad esempio. Dal punto di vista giuridico, il nostro Paese è in ritardo rispetto ad altri Stati nei quali il settore degli eSports è già entrato nell’alveo del professionismo, come Corea del Sud e Stati Uniti.
In Italia gli eSports sono ancora molto poco regolamentati. Innanzitutto non sono uno sport e non sono soggetti alla disciplina sportiva, ma restano all’interno del settore “intrattenimento“. Dal punto di vista pratico, ne consegue che la disciplina in tema di esports è un fatto negoziale rimesso all’autonomia privata, ovvero si fonda sugli accordi tra i vari soggetti (giocatori, squadre, società e associazioni) che interagiscono fra loro.
L’elemento normativo finora più importante è datato 28 febbraio 2017 ed è costituito dall’intervento del Comitato Internazionale Olimpico in questa materia. Per il CIO, gli esports possono essere considerati attività sportiva, ma non sport olimpico: “gli esports competitivi possono essere considerati un’attività sportiva, e i giocatori coinvolti si preparano e allenano con un’intensità che può essere paragonata a quella degli atleti delle discipline tradizionali”. In altre parole, il Comitato Olimpico, pur riconoscendo alle competizioni videoludiche alcuni aspetti sportivi, evidenzia la mancanza dei requisiti necessari per ottenere il riconoscimento di disciplina olimpica, come la diffusione su scala mondiale con presenza significativa in ciascuno dei 5 continenti e con equa presenza di uomini e donne, il rispetto dei valori olimpici, l’esistenza di un organizzazione che garantisca il rispetto delle norme e delle regole del movimento olimpico (anti-doping, scommesse, manipolazione, ecc.). (fonte EsportsMag.it)
L’altro elemento giuridico certo resta, per ora, quello che regola le competizioni a premi. In questo ambito, si applica ai tornei di eSports la normativa relativa ai giochi di abilità a distanza con vincita in denaro e/o quella relativa alle manifestazioni a premio in caso di torneo a partecipazione gratuita ma con assegnazione di premio. Il problema principale, in questo caso, è che la normativa si applica sono all’Italia e non copre tutte quelle competizioni internazionali con premi in denaro alle quali gli esporters del Belpaese partecipano.
E gli altri Stati Europei? A dire la verità, le cose sono ancora piuttosto ingarbugliate anche in Spagna, Francia e Germania, i tre Paesi con il maggior numero di giocatori e appassionati nel nostro continente.
In Spagna il dibattito politico sull’assimilazione degli esports alla disciplina sportiva è aperto, soprattutto per la spinta del partito Ciudadanos e del Governo delle Canarie, ma tanto più di questo non c’è. Gli eSports per ora restano tagliati fuori e, come in Italia, i soggetti interessati si devono accontentare di quanto previsto dalla legge per tutti gli altri settori.
In Francia c’è molta attenzione sia agli eventi con premi, sia alla tutela dei più giovani. Per quanto riguarda il primo ambito, le competizioni possono essere organizzate solo a condizione che le quote di partecipazione totali raccolte dai giocatori non superino i costi totali di organizzazione. Il torneo deve essere prima approvato da una struttura del Ministero “de l’intérieur Chargé des Courses et Jeux”. I minori di 12 anni non possono partecipare, mentre per coloro che non hanno ancora raggiunto i 18 anni è necessaria l’autorizzazione dei genitori o dei loro rappresentanti legali.
Ancora più alta è la cautela del Paese Transalpino quando si parla di professionismo e di rischi legati al gioco compulsivo. In entrambi i casi, lo Stato interviene in maniera diretta: da un lato, infatti, è prevista l’autorizzazione del Ministro per gli affari digitali prima di poter ingaggiare un giocatore professionista; dall’altra, un’apposita commissione governativa vigila su aspetti come l’idoneità fisica e mentale e le ore trascorse davanti allo schermo.
Chiudiamo con la Germania, dove la situazione è ancora più “scomposta” a causa delle scelte operate dal Deutsche Motor Sport Bund e dal Deutscher Olympischer SportBund: il primo ha riconosciuto ufficialmente le competizioni virtuali motoristiche, l’altro ha stabilito che i videogiochi non possono in alcun modo essere classificati come sport.
Il DOSB, in particolare, ha dato segni di grande incertezza sul fronte degli eSports (termine tra l’altro mai usato e sostituito da eGaming): per il comitato olimpico tedesco, tutti i titoli che non si basano su attività sportive non possono assolutamente essere considerati sport (ad es. League of Legends, Fortnite etc.), mentre agli altri è riconosciuto lo statuto di “sport virtuali” e non di sport veri e propri. Le motivazioni sono: il rischio di dipendenza da videogiochi, il carattere eminentemente commerciale dell’offerta di eGaming presente sul mercato, l’assenza dei principi etici fondanti lo sport propriamente inteso.
Fa un po’ sorridere il fatto che, nel frattempo, il governo federale tedesco abbia annunciato la creazione di un visto speciale per i giocatori stranieri di eSports, per favorire l’ingresso di professionisti provenienti da Paesi che non sono membri dell’Unione Europea.
Insomma, anche sul fronte degli eSports, l’Europa tentenna.