Quello degli eSports, cioè delle competizioni di videogiochi, è un mercato costantemente in corsia di sorpasso da ormai 4/5 anni. Valutato più di 1,1 miliardi di dollari già nel 2019, il mondo esportivo è diventato nel 2020 un business ancora più interessante. La ragione principale è legata alla pandemia di COVID-19, la quale ha fatto scoprire i videogiochi a milioni di persone e alle aziende un nuovo modo per veicolare i propri brand attraverso internet. Le previsioni per il 2021 indicano una possibile quota 1,5 miliardi di dollari per il mercato dei videogiochi competitivi (Newzoo).
Il dado è dunque tratto, anche perché sembra improbabile un’inversione di rotta anche quando (finalmente) il coronavirus verrà stato debellato. La ragione è che gli eSports parlano il linguaggio di oggi: quello tecnologico dell’online, del virtuale e della comunicazione via social media. Ad un fenomeno in così forte espansione corrisponde però un elevato grado di anarchia: sono tanti i soggetti (team, organizzatori, creatori di contenuti, community, aziende, influencer, streamer e via dicendo) ancora alla “ricerca d’autore”, bisognosi cioè di un adeguato supporto legislativo.
In Italia, poi, questo problema diventa particolarmente sensibile. Il nostro Paese ha scoperto solo da pochi anni il mondo degli eSports, registrando uno sviluppo esponenziale di questo mercato. Al tempo stesso, proprio per la rapidità della crescita, si trova decisamente impreparato dal punto di vista della legislazione in materia. Un grosso limite per aziende e società che vedono nel Belpaese un mercato ancora vergine dove poter investire, ma vincolato dalle incertezze normative.
Per capire un po’ meglio questa situazione, abbiamo contattato chi mastica Legge e gaming tutti i giorni. Lo studio legale DLA Piper ha assistito (e assiste tuttora) le principali società attive nel mercato del gaming. Da alcuni anni ha iniziato a rivolgersi anche al settore degli esports, consapevole del ruolo che questo sta già avendo nel nostro Paese. Ringraziamo quindi gli Avvocati Vincenzo Giuffré e Giulio Coraggio per il tempo dedicato a PokerStarsnews in questa intervista.
Grazie ancora per la disponibilità. Cominciamo da una domanda “personale”: come mai uno Studio Legale come il vostro ha scelto di occuparsi anche di eSports?
Abbiamo sin da subito individuato le potenzialità del mercato e colto le principali criticità: la più importante è quella per cui, nonostante si tratti di un fenomeno globale, non esiste una normativa a livello unitario, né a carattere internazionale né a livello europeo. Abbiamo così pubblicato già nel 2019 la prima guida normativa sugli esports – Esports Laws of the World – che analizza la legislazione sui videogame competitivi di 38 giurisdizioni e intende aiutare le società a comprendere come districarsi all’interno dei diversi mercati. A breve usciremo con una seconda edizione di DLA Piper Esports Laws of the World che raccoglierà circa 50 giurisdizioni e puntiamo a trovare le soluzioni legali che consentano lo svolgimento di iniziative legate agli eSports in Paesi dove, per lo più, non esiste ancora una normativa dedicata.
Proviamo ad indicare una definizione legale degli eSports. Nella normativa italiana, a quale categoria appartengono i videogiochi competitivi?
Non esiste una definizione normativa di eSport nonostante il settore abbia un’impellente necessità di un riconoscimento ufficiale. L’attuale attenzione sugli eSports può creare potenzialmente milioni di nuovi clienti per un settore che è già in rapida crescita. Per esempio, la finale del campionato del mondo di League of Legends nel 2018 ha avuto quasi 100 milioni di spettatori che si sono collegati online, il che già allora evidenziava un seguito superiore a quello di alcune finali degli sport tradizionali. Per quanto concerne il panorama italiano, gli eSports non sono discipline riconosciute e attualmente esistono soltanto associazioni che operano sotto l’egida di Enti di Promozione Sportiva, che a loro volta sono associazioni riconosciute dal CONI. Non sono previsti aggiornamenti neanche in tema di ordinamento sportivo e professioni sportive, in quanto la recente delega al Governo per il riordino delle attività sportive e dei soggetti istituzionali ad esse proposte non fa alcun riferimento a professioni in campo virtuale.
Quindi, nessun riconoscimento per giocatori, influencer e tanti altri soggetti che operano all’interno di società esportive (i coach, per fare un esempio)?
Allo stato attuale gli eSports non sono riconosciuti quale vera e propria disciplina sportiva. Ne consegue una situazione di incertezza sulla natura giuridica dei rapporti professionali: primo fra tutti quello tra i gamers e il team. Si fa fatica persino a dare una definizione condivisa di gamer, con tutto ciò che consegue dal punto di vista dell’applicazione delle tutele del lavoratore sportivo. Sono passati dieci anni da quando PewDiePie, il più famoso youtuber al mondo, caricava la sua prima clip che lo riprendeva mentre giocava ai videogiochi. Oggi i suoi video sono stati visti circa 26 miliardi di volte. Ciononostante, si ha ancora difficoltà ad individuare il codice Ateco rivolto agli streamer e siamo ben lontani dal riconoscimento ufficiale per queste professioni in Italia, mentre i Paesi asiatici sono in generali ben più avanti rispetto al nostro.
La “professione” più pratica è senza dubbio quella del giocatore. C’è qualche appiglio per cui la figura del gamer esportivo può, dal punto di vista contrattuale, essere avvicinata a quello dello sportivo di professione? Ad esempio, la presenza di un “cartellino”? Esistono i procuratori anche nel settore degli eSports?
La questione dei contratti dei giocatori professionisti è ancora priva di una regolamentazione omogenea e dunque sostanzialmente rimessa in toto alla libertà negoziale delle parti, ed anche la figura del procuratore e-sportivo in realtà opera come una sorta di procacciatore di affari per il gamer. I tradizionali operatori dello sport stanno sempre più puntando al settore dei giochi sportivi elettronici per diversificare le proprie attività. Nel calcio, ad esempio, diversi club di Serie A hanno allestito un proprio team dedicato al calcio virtuale (eSoccer) con cui sono pronti a competere anche nella prossima eSerieA. Il problema è che, allo stato attuale, non sono applicabili all’universo e-sportivo le previsioni applicabili agli atleti seppur, di fatto, si comportano come professionisti ed in alcune circostanze gli stipendi si possono persino equivalere.
Parliamo di proprietà intellettuali. Le regole degli scacchi o quelle di poker (giusto per citare due giochi competitivi) sono a disposizione di tutti, nessuno può vantarne la proprietà intellettuale. Non sembra questo il caso di videogiochi, che sono di proprietà dei publisher. Come si gestisce questa “anomalia” quando si tratta di organizzare un torneo senza il consenso del publisher? O ancora, è possibile trasmettere una partita in streaming con copertura pubblicitaria?
Il videogioco è un’opera collettiva ai sensi dell’art. 38 della Legge sul Diritto d’Autore. La tutela è assicurata non soltanto al software di funzionamento, ma anche alle singole componenti (musica, grafica, caratterizzazione dei personaggi o degli ambienti). Agli sviluppatori dei giochi, in quanto editori dell’opera collettiva, spetta dunque il diritto di utilizzazione economica sul gioco. Gli organizzatori di tornei indipendenti hanno interesse ad acquisire, dagli sviluppatori dei videogiochi, apposite licenze per l’utilizzazione del gioco e dei propri diritti di proprietà intellettuale ed industriale per realizzare e promuovere i propri eventi ed esistono linee guida e modelli generali di accordo per l’acquisizione di tali licenze, che variano a seconda della natura e delle dimensioni dell’organizzatore e dei premi in palio. A volte queste licenze sono tuttavia limitate poiché gli stessi sviluppatori possono organizzare tornei analoghi.
Fantastichiamo un po’: nel caso il CIO ammettesse gli eSports alle Olimpiadi, i publisher potrebbero impedirlo?
In teoria la risposta alla domanda è sì, anche se gli stessi publisher avrebbero interesse affinché il proprio videogioco venisse utilizzato alle Olimpiadi (anche in termini di ritorno di visibilità). In ogni caso, ciò dipenderà dalla tipologia di videogioco che verrà offerto e dagli accordi commerciali che i publisher riusciranno a concludere con il CIO.
Chiudiamo con un argomento completamento diverso, che però sta scuotendo il mondo degli eSports e creando problemi ad alcuni publisher: quello delle “loot box”. In alcuni Paesi (Olanda in primis), questi “upgrade” acquistabili per il gioco sarebbero paragonabili al gioco d’azzardo, poiché il tipo di upgrade contenuto nella box è casuale. Come si pone la legge italiana in questo senso?
In Italia, le lootboxes non sono ricomprese nel concetto di giochi riservati allo Stato, poiché all’apertura delle lootboxes non vengono riconosciuti dei premi in denaro o in natura ma esclusivamente dei contenuti di gioco utilizzabili solo all’interno del video gioco stesso. La definizione di lootboxes non è inoltre disciplinata a livello normativo in Italia, pertanto le Autorità italiane hanno deciso di focalizzare la propria attenzione sui requisiti di trasparenza delle lootboxes. Gli sviluppatori dei videogiochi dovranno quindi rendere noto in modo chiaro ai giocatori ed agli utenti le percentuali e i possibili esiti delle casse o degli scrigni offerti all’interno del videogioco.