C’è tutta una generazione di giornalisti sportivi che ha contribuito a fare la storia al pari degli stessi protagonisti.
Perché nei tempi in cui i social network non erano ancora nei pensieri nemmeno degli scrittori di fantascienza, a raccontare le gesta degli eroi dello sport erano penne sublimi che riuscivano a concentrare non solo la pura cronaca dell’evento, ma anche a rappresentarne l’epica.
E non c’è dubbio che una delle figure di maggiore riferimento in questo campo, sia stato Gianni Mura.
L’erede di Brera
Quando Gianni Mura si è avvicinato al mondo del giornalismo sportivo, lo ha fatto in giovanissima età, ancora da studente ma con la passione per la lingua italiana (di cui aveva piena padronanza) e la letteratura.
Passioni che condivideva con un altro mostro sacro del giornalismo sportivo, Gianni Brera, che non a caso divenne presto un vero e proprio mentore per lui, insegnandoli alcuni segreti del mestiere, più probabilmente a tavola (altra grande passione passione comune) che in redazione.
Un binomio quello tra Mura e Brera che divenne anche professionale, quando durante i mondiali di Spagna 82 si ritrovarono insieme a Repubblica, in un dream team difficile da ripetere.
Due penne e due persone fuori dall’ordinario, capaci di raccontare l’evento sportivo, ma anche gli uomini e la società. Ironia del destino, toccò proprio a Mura scrivere l’articolo di commiato al defunto Brera nel 1992, leggenda vuole citandolo a voce e a braccio, in lacrime.
Lo stile di Mura
Una delle tante qualità di Gianni Mura era quella di essere una persona estremamente colta e intelligente. Non si tratta solo di sapere informazioni in molti campi della conoscenza umana (pure erano tante e varie le sue competenze), ma di “viverle”.
Una sorta di intellettuale moderno, nell’accezione più positiva del termine. Non uno “snob” che si ergeva dall’alto della sua conoscenza, ma un uomo umile che arrivava alla pancia dei lettori.
La bellezza dell’essere colti in effetti, non si traduce nell’utilizzo di paroloni difficili o strutture grammaticali particolarmente complesse, ma nel rendere facili delle cose difficili, riuscendo a padroneggiare un argomento non solo perché lo si conosce a fondo (come nel caso dello sport per dirne uno), ma perché si conoscono anche tante altre cose intorno a cui fare riferimento.
Un’abilità che gli consentiva poi di aggiungere spesso all’interno dei suoi pezzi, ulteriori livelli di lettura, piccole perle che comprendevano anche giochi di parole o anagrammi.
Mura era semplice e chiaro, ma mai banale e comune. Anzi, si potrebbe dire che la sua fu una vera e propria campagna contro le frasi fatti e le ricorrenze scontate che spesso abbondano nei pezzi sportivi.
E non importa che si tratti di una partitella di poco conto o della scalata finale al Tour de France, nelle sue parole c’era sempre originalità e chiarezza.
Non solo calcio
Da questa frase si può capire quanto Mura fosse legato non solo al mondo del pallone, ma anche se non soprattutto a quello del ciclismo.
Un giornalista così capace proprio di cogliere l’epica umana e sportiva del resto, non poteva che legarsi in maniera indissolubile a uno sport come quello delle due ruote che si fonda profondamente sulla fatica e la sofferenza dei suoi indomiti partecipanti.
Dal primo all’ultimo, perché almeno in quello non c’è grande differenza tra chi taglia per primo il traguardo e chi invece in fondo al gruppo.
Per quasi quarant’anni Mura si occupò dei racconti della bicicletta (titolo di un libro che ne raccoglie proprio tutti i suoi reportage), raccontando tutti i più grandi campioni di questo sport: dalla rivalità antica tra Coppi e Bartali, ai successi di Pantani.
Il calcio di Gianni Mura
Interessi diversi a parte, è chiaro che Gianni Mura visse in pieno il mondo del calcio per tutta la sua lunga carriera. Da buon giornalista non si è mai dichiarato tifoso di una squadra in particolare, anche se in una intervista ammise che da giovane c’era una qualche vicinanza all’Inter, salvo poi andare sul sicuro puntando sulle squadre “minori” come l’Atalanta (e lo disse ben prima della cavalcata Champions di Gasperini).
Perchè se Mura odiava le banalità nello scritto, sopportava malamente anche quelle della vita. Il suo calcio vissuto era qualcosa di lontano da quanto vediamo ora. I calciatori sono delle rockstar che difficilmente escono da quelle quattro frasi standard che si sentono dire nel post partita, e forse anche per questo lo stesso Mura aveva dichiarato quanto in tempi recenti non c’era nessuno che valesse la pena intervistare (eccezion fatta per il primo Sarri, quello dell’Empoli ancora).
In compenso non nascondeva certo qualche antipatia, come quella verso Mourinho, spesso al centro di frecciatine, sempre molto argute e mai offensive.
Resta però un cantore di altri tempi, che aveva la netta percezione di un mondo ormai troppo cambiato per poterne ancora fare una narrazione epica e avventurosa.
Erano cambiati non solo i protagonisti, ma anche il sistema tutto che li accoglieva. Lo sport tutto sta andando verso quella che Mura chiamava una “robotizzazione”, dove appunto il valore assoluto degli interpreti principali è condizionato da calcoli sempre più estremi e controllati.
Persino il ciclismo, lo sport più epico per antonomasia, ormai è schiavo di un tatticismo esasperante, controllato con auricolari e radiolina. Uno sport in cui anche un Mura, avrebbe fatto fatica a tiraci fuori un racconto davvero straordinario.
Il cibo, nutrimento per la mente
Ma oltre ai suoi articoli e le sue tante rubriche sportive (“Sette giorni di cattivi pensieri” è tutt’ora uno dei format più duraturi del giornalismo), Mura si occupava sempre anche di un’altra sua grande passione: il cibo.
Sempre su Repubblica, ne “Il Venerdì”, era solito infatti tenere una rubrica gastronomica (con la moglie Paola).
Durante la sua carriera, Mura ha potuto girare mezzo mondo e in ogni località non ha mai mancato di approfondire anche le loro specialità culinarie. Appassionato di buon cibo e di buon vino, sono tanti gli aneddoti e i racconti nati davanti a una tavola imbandita, più ancora che nei campi da calcio.
In qualche occasione a Mura era stato chiesto persino di associare ai suoi più grandi campioni, un qualche piatto altrettanto amato. Ed era venuto fuori così che Riva sarebbe stato un “polenta e salsiccia”, Mennea qualcosa di simile alle uova all’occhio di bue, mentre la Simeoni era sicuramente una pasta e fagioli.
Piatti semplici, così come Mura e il suo modo di vedere la vita. Dove la complessità era piuttosto qualcosa di celato, da scoprire pian piano, sotto il primo strado che doveva invece essere diretto, di pancia.
Comprensibile, chiaro e coinvolgente. Come Gianni Mura.