Ventidue anni dopo il suo silenzioso arrivo in Inghilterra. Mesi di innumerevoli rumors. Di incredibili discrediti. Di assurdi dubbi. Poi, la decisione: Arsene Wenger, per la prima volta, arrivò a guardarsi indietro senza la forza di volgere lo sguardo al futuro. Qualcosa che, in tanti anni di Arsenal, no: non gli era mai capitato.
Aveva capito, in quel momento, che una parte meravigliosa della sua vita e della sua carriera era finita, e stavolta per davvero. Che l’uomo in grado di trasformare – sin dal suo arrivo – un club incredibile come l’Arsenal, nel giugno del 2018 avrebbe dovuto appendere il taccuino al chiodo.
Due certezze, nel giorno dell’addio. La prima: non erano solo i Gunners a essere cambiati, l’aveva fatto l’intero calcio inglese. Crudo e fisico al suo arrivo, tecnico e veloce al suo addio (c’era e c’è tanto di Wenger nell’evoluzione del football). La seconda: a distanza di anni, ancora in pochi danno credito a quella squadra bianca e rossa, vittima specialmente di se stessa.
Wenger e quel volo dal Giappone
L’addio è stato sempre un tema ricorrente negli ultimi anni di lavoro dell’alsaziano. Il motivo si faceva spesso loop e s’incastrava nel basso livello competitivo mostrato dall’Arsenal: capitava in Premier League, si ripeteva nelle competizioni europee. Comunque, nonostante i dubbi e i risultati avversi dell’ultima decade, nessuno provava anche solo a questionare il lavoro fatto dal tecnico nel nord di Londra. Prima nel vecchio stadio delle emozioni, Highbury; poi nello spettacolo dell’Emirates Stadium.
Quel veterano di Wenger – 71 anni quest’anno – anche nel mare in tempesta sapeva ugualmente ergersi a stratega. Del resto, era entrato in un club soffocato dal suo passato, riuscendo a stravolgerlo e a renderlo moderno, competitivo, capace di lottare fino all’ultimo per un titolo.
Alla base, praticamente sempre, un calcio assolutamente godibile. Il più grande risultato resterà questo: aver sradicato le radici di un glorioso passato e aver partorito una nuova immagine dell’Arsenal. Una squadra, fino al suo arrivo, conosciuta con il nome di ‘Boring, boring Arsenal’ (noioso, noioso, Arsenal) trasformata semplicemente negli ‘Invincibili’. Nomignolo portafortuna di una stagione che non conobbe sconfitte.
E pensare che si trattò di una scommessa. L’allora direttivo dei Gunners, nel 1996, scelse Wenger dopo un paio di indicazioni: si buttarono quasi nel vuoto, affascinati da quest’allenatore sconosciuto che ai tempi guidava una squadra del campionato giapponese. 22 anni dopo, qualcuno si sarà strofinato il petto in segna di vittoria. Non solo per i trofei, quanto per la crescita generale del club. Specialmente in termini di fatturato.
“Wenger chi?”
Sì, una scommessa. Un francese in Inghilterra, per di più: Arsene Wenger, lo studioso del calcio che aveva allenato il Nancy e il Monaco nel suo paese natale. E che, in un anno e mezzo, aveva cercato fortuna nella J-League giapponese con il Nagoya Grampus Eight. Il benvenuto con cui lo accolse la capitale britannica, nello stesso giorno del suo arrivo dall’Asia, non fu certamente dei migliori. Il titolo dell’Evening Standard non lasciava spazio a interpretazioni: “Arsene who?”. Non vale la pena allegare facili traduzioni.
Wenger arrivò ad Highbury con l’arduo compito di gestire una rosa in quel momento tipicamente britannica. Una squadra che festeggiava le vittorie bevendo pinte di birra, che soffocava le pene delle sconfitte nello stesso modo.
Il francese, con i suoi capelli crespi, le sue cravatte esageratamente grandi, quell’aplomb da professore di liceo (altro che grande, grosso, manager all’inglese), vietò subito cioccolatini, alcolici e soprattutto il “fish and chips”, il tradizionale merluzzo fritto con le patate. E ancora altri cibi calorici e malsani: il primo punto all’ordine della sua avventura fu instaurare una dieta più consona ai giocatori di un certo livello. Carne e pesce, verdure abbondanti. Bilanciare il bilanciabile.
Al suo arrivo al quartiere di Islington, e la stampa lo racconterà soltanto anni dopo, Wenger subito ebbe scontri con due ‘pesi massimi’ della rosa, il capitano Tony Adams e Paul Merson. Due col vizietto di alzare il gomito, due che non comprendevano e condividevano i nuovi metodi rivoluzionari del francese. “La ragione principale per la quale sono qui è perché amo il calcio inglese; le origini del gioco di cui parliamo sono in questo paese. Mi piace lo spirito, amo l’ambiente che si respira qui. L’animo e il potenziale che ha l’Arsenal”, le prime parole di Wenger nella conferenza stampa di presentazione. Era il nuovo inquilino e parlò innamorato come un vecchio custode.
Una grande storia d’amore
Nonostante i dubbi dei media, dei tifosi e degli stessi giocatori, l’allenatore alsaziano riuscì a diventare un pezzo chiave del puzzle Arsenal. I Gunners smisero di ancorarsi al passato e cambiarono il passo, diventando una squadra moderna sotto ogni punto di vista. Wenger segnò un prima e un dopo nella storia di una vera istituzione. Chiamasi impresa.
Vincitore di tre titoli di Premier League (1997/1998, 2001/2002 e 2003/2004), sette FA Cups (1998, 2002, 2003, 2005, 2014, 2015 e 2017) e ancora sette Community Shield, il galiziano ha calcato le orme soltanto di Sir Alex Ferguson, che con il suo Manchester United è stato l’unico a vincere più di lui. In Inghilterra e non solo.
Nonostante l’Arsenal non vinca un campionato da ben 14 anni, Wenger è riuscito comunque a tenere il club nell’elite del calcio inglese. E a parte le ultime due stagioni in cui si è dovuto accontentare dell’Europa League, ha sempre strappato il ticket per giocare la Champions League. Nell’ultimo anno del manager, la speranza era proprio quella di alzare la vecchia Coppa Uefa: in semifinale, l’Atletico Madrid fu semplicemente imbattibile.
Una piccola macchia in una carriera costellata da gioco, coraggio e occasioni. Qualcuna persa, come la finale di Champions del 2006 persa proprio a Parigi, dove lui e Titì Henry erano di casa. O come il titolo del 2016, finito dopo una strepitosa cavalcata al Leicester di Ranieri: paura e malasorte, consegnarono la vittoria a Davide. E Golia vestiva la casacca bianca e rossa. 22 anni dopo, cosa resta? Oltre alle medaglie, certamente immenso orgoglio.