Vedere il compimento di un’opera d’arte, nel momento stesso in cui questa viene concepita e tradotta in atto, è un privilegio destinato a pochi.
Rendere immortale questa opera d’arte, tramandandola ai posteri è una capacità anche questa destinata a pochi.
Caratteristiche di pochi eletti quindi, destinate però a cristallizzare la bellezza dedicata a molti.
Pensiamo a chi supportò Michelangelo nel compimento della sua opera massima nella Cappella Sistina. Protagonista, fondamentale anche se leggermente laterale, di una delle opere più conosciute della storia dell’Umanità.
Pensiamo ad esempio a Victor Hugo Morales, che il pomeriggio del 22 giugno 1986 ebbe la fortuna – destinale – di raccontare e dipingere con le parole il Gol del Secolo. Che sta al calcio come l’affresco della Cappella Sistina sta all’arte.
Un frammento, immortalato dalla fotocamera, coglie Diego Armando Maradona un istante prima dell’ultimo dribbling al portiere inglese Peter Shilton.
La sua posa ha qualcosa di divino, come quella dei soggetti negli affreschi sacri.
Il percorso di Morales verso Diego
Victor Hugo Morales è il «gol del secolo» tanto quanto il suo autore, Maradona. Almeno quanto il luogo dell’evento salvifico: l’Azteca, così chiamato in onore dell’antica e misteriosa civiltà di Città del Messico. Qui, appena 16 anni prima, un altro evento memorabile si era consumato: la «partita del secolo» tra Brasile e Italia. E qui, nell’afa straniante che circonda lo stadio nel mese di giugno, l’evento secolare torna a compiersi, ripetendosi all’infinito come l’uroboro nietzschiano.
Il destino di Victor Hugo Morales doveva compiersi quel pomeriggio. Egli entrerà per sempre nella storia del calcio con quella telecronaca, con quel commento memorabile.
Ma Victor entra nella storia del mondo molto prima. E Maradona, ben prima di quel gol, è già presente nel suo destino. La prima telecronaca di Morales cade durante Boca Juniors-Talleres di Cordoba, 22 febbraio 1981. Maradona segna una doppietta all’esordio col Boca, che vince 4-1.
I due, che si “incontrano” virtualmente quella sera, si incontreranno di persona su un volo della nazionale argentina costretta a far scalo a Lima per un guasto tecnico. Maradona incontra Morales tra i passeggeri, e lo coglie assorto tra le dense pagine di Cortazar. Si conoscono, si stringono la mano dandosi del Lei. Una buona usanza che resterà immutata fino agli ultimi giorni di Diego in terra.
Formatosi tra le pagine ingiallite di libri memorabili, di romanzieri avventurosi e di filosofi arditi, tra le maschere di Mastroianni, De Sica e Tognazzi, Victor Hugo Morales, uomo coltissimo, dirà di sé: «io non sono colto. Alessandro Baricco è colto, Tomasi da Lampedusa era colto. Io amo soltanto la cultura».
Nato a Cardona, tra le seimila anime della sponda uruguagia di Rio de La Plata, a 16 anni già lavora per Radio Colonia, e a 18 è il più giovane giornalista d’America. In Uruguay in quegli anni c’è però la dittatura e lui, già coraggioso in giovane età, denuncia i misfatti del regime. Finisce addirittura in prigione per 27 giorni. Capisce che è il momento di emigrare in Argentina.
Una scelta difficile, un punto di non ritorno che si compirà nel 1981. La sua storia è celebre in Sudamerica, e alcuni colleghi argentini vi solidarizzano motivandolo a continuare il mestiere. Nonostante non sia ancora celeberrimo, Victor Hugo Morales lascia nei suoi interlocutori una sensazione di magnificenza. Come quando si incontra un uomo che trascende la propria persona, che dona al mondo qualcosa di diverso, di inaspettato ed inaudito.
Egli non è propriamente un radiocronista, si badi bene. È un relator, termine intraducibile in italiano, ma riconducibile più alla sfera letteraria ed artistica che a quella giornalistica.
Dopo aver lasciato il carcere dietro cauzione, accetta l’offerta di Radio El Mundo, e decide così di trasferirsi a Buenos Aires. È solo la prima di innumerevoli e maestose città con cui ha a che fare nella sua vita di relator. Roma “[lo] sensibilizza, ha un valore [per lui]” che trascende il tempo. C’è poi Montevideo, ovviamente. New York, e ancora Città del Messico. Morales ama perdersi tra i vicoli di Ciudad Vieja, la città che non dorme mai. E da cui salgono fumi di tabacco incessantemente aspirati ed espirati da chi quel luogo lo vive quotidianamente. Lui compreso.
La sigaretta costituisce per il cantore uruguaiano un grande amore contratto in gioventù. Ma vuole smettere, e fa di tutto per riuscirci. Addirittura, dopo diverse terapie clinicamente accertate ma empiricamente vane, decide di rivolgersi ad uno stregone. È il 1986 e Morales vola a Zurigo, compiendo un itinerario simile a quello del protagonista dipinto da Thomas Mann nella Montagna incantata (magica): Hans Castorp, costretto – più o meno forzatamente – a rimanere nel sanatorio svizzero di Davos, Berghotel Sanatorium Schatzalp.
Dove la scienza non arriva, trionfa la fantasia. Non è un modo di dire, perché Morales smette effettivamente di fumare dopo il soggiorno svizzero. Ma non è un modo di dire anche per un’altra ragione. Alla narrazione dei fatti nudi e crudi, tipici di uno stile all’italiana come quello di Sandro Ciotti, o di Enrico Ameri, o ancora di Nicolò Carosio, Morales contrappone – o meglio, giustappone – una narrativa fluida, immaginifica, quasi fantastica, sul calco del proprio maestro Carlos Salè.
Come accade in occasione del racconto più celebre nella storia delle radio(e tele)cronache: il secondo gol di D10S, Diego Armando Maradona, contro l’Inghilterra.
El Barillete cosmìco
L’azione dura il tempo di un paio di battiti di ciglia: 10 secondi, 52 metri, 44 passi, 12 carezze al pallone, tutte col sinistro.
Pausa obbligatoria. Nelle primissime parole di commento all’azione, c’è già tutta l’arte narrativa del cantore uruguagio. In corsivo, si noti lo spessore stilistico e ritmico dei verbi utilizzati: tocar, tener, marcar, pisar, arrancar. Fino all’epiteto più celebre di sempre: el genio del fùtbol mundial. Sembra una poesia, ma è una telecronaca inventata in presa diretta. Continua Morales:
Altra pausa. Cosa sta a significare il ta-ta ripetuto più volte, quasi freneticamente, in un momento di esaltazione mistica totale, lo sa davvero solo Nostro Signore. Ma un’indicazione c’è. Dalle parti di Montevideo, l’espressione è usata per indicare qualcosa «che è concluso» o «che sta per concludersi». Con un termine erotico, ma di erotismo stiamo parlando, un orgasmo.
Perdonatemi, dice Morales ai tele- e radio- ascoltatori. Perdonatemi se piango. Dirà più in là con gli anni, quasi a volersi giustificare, di «essere stato rapito». Da cosa? Dall’«eccesso emozionale che trascende il lavoro di un professionista, che deve sempre mantenersi distante dai fatti».
Per una curiosa ironia della storia, l’unica telecronaca di Morales in cui il relator non ha mantenuto il giusto distacco è la stessa che lo ha reso celebre. Ma che Morales fosse un attento e distaccato osservatore lo dimostra l’occasione del primo gol di Maradona, quello di mano, in cui il commentatore uruguagio è l’unico a rendersi conto, in presa diretta, della furbata del fuoriclasse argentino.
Poi descritto, in occasione del gol del Secolo, come barrilete cosmico.
Maradona è qui paragonato ad un aquilone che svolazza nel cielo sbeffeggiando le correnti. Libero, arioso. Armonioso. Cosmico, perché va oltre il tridimensionale sfidando le leggi universali. Da che pianeta sei venuto?, si chiede ancora Morales. Di certo da un pianeta che odia gli inglesi, inventori del gioco – altro beffardo paradosso.
Appena quattro anni prima, migliaia di soldati argentini erano morti alle Islas Malvinas per mano dell’esercito inglese. Quei conti non si sarebbero mai chiusi. Ma la voce di Morales e lo sconfinato talento di Maradona avrebbero almeno riaperto il cerchio. All’infinito.