Con un cognome un po’ così, ma una storia che mista a spalle larghissime l’hanno portato lontanissimo. Almeno fino a Barcellona. Si chiamava Sandro Puppo, era un giocatore degli anni Quaranta ed è stato soprattutto un allenatore degli anni Cinquanta e Sessanta.
È scomparso dai racconti di sport, eppure ha un primato niente male, che sarebbe da tramandare per generazioni: Puppo è rimasto per sempre l’unico allenatore italiano alla guida del Barcellona, la squadra più lontana dalla mentalità tricolore. L’ha fatto in un epoca in cui il barcelonismo era roba astratta e non ancora concretamente accompagnata da immagini, giocatori, identità e stile di gioco. Insomma, ben prima del pre Cruyff.
Però era un precursore, Puppo. Piacentino di nascita e cinese d’adozione: visse al seguito di suo padre, violinista, proprio a Shanghai dove iniziò a giocare a calcio nella squadra della sua “borgata”.
Nel 1934 torna a Piacenza e parla fitto con l’allenatore Carlo Corna: fa un provino, gli piace, lo mette mezzala a portare polmoni e buona palla al piede. Ma è la tenuta atletica a impressionare tutti: allora, centromediano, fino alla fine della carriera. A Piacenza cresce e diventa grandissimo. Viene anche convocato per le Olimpiadi di Berlino del Trentasei: non giocò mai.
Imparare il calcio
Ogni esperienza è una buona occasione per imparare. Per capire. Puppo ha una conoscenza del gioco parecchio superiore ai suoi compagni di squadra e lo dimostra praticamente ovunque. Nel ’37 passa all’Inter: vince uno scudetto, ma è chiuso da Olmi e vive tutta la stagione in panchina, di fianco all’allenatore, come fosse una seconda guida tecnica. Nel 1939 va a Venezia, dove rimane per cinque anni, giocando alle spalle di Loik–Mazzola.
Comunque, la vera svolta è un’altra: nel 1945 torna per una breve stagione al Piacenza – sono anni particolari, è appena finita la guerra – e gli viene addirittura affidata la panchina. Durerà quattro giornate (poi rientrerà Bodini), ma saranno praticamente fatali per la decisione sul suo futuro.
Ancora Venezia. Due anni a Roma – sempre a osservare, meno a giocare -, poi l’occasione di riunire la grande passione per la guida tecnica: il Thiene, provincia vicentina, lo prende e lo rende allenatore. Un anno e arriva il Venezia: da vice e poi da primo allenatore. Poi Rovereto e nel giro di 3 anni arriva a guidare il calcio turco. Non un club: proprio la selezione nazionale. Deve guidarla alle Olimpiadi di Helsinki del 1952 e li conduce alle qualificazioni ai Mondiali del 1954, eliminando la Spagna. Negli stessi anni guida anche il Besiktas: vincerà due campionati turchi.
Come sempre, è una partita a cambiare tutto. A tracciare la strada. A dare la dimensione del grande gesto. Proprio per quell’eliminazione cocente, in Spagna si sparge il mito di Puppo: a chiamarlo è direttamente il Barcellona per l’anno 1954-1955. Un’occasione che coglie al volo e cambia la storia del club: è il primo italiano ad allenarla. E sarà anche l’ultimo.
Quell’anno a Barcellona
Perché Puppo? Per il suo gioco? Nì. Chiariamo: il mister era stato uno dei primi a utilizzare il gioco a zona, storicamente era contro il concetto di libero alla vecchia maniera. Il suo era un regista, un costruttore, un uomo da palla a terra e fraseggio. Ma le sue squadre non erano una meraviglia: erano solide, con compiti ben distribuiti.
Il Barça aveva sostanzialmente bisogno di questo: di ordine e disciplina. E Puppo non se lo fece ripetere un paio di volte, azzannò l’opportunità e fece a brandelli la vecchia guardia catalana. Da una parte – di lato – Basora e Biosca, glorie blaugrana, dentro i giovani, gente fresca, volti da svezzare che avrebbero seguito la nuova strada senza preferire sempre e comunque quella vecchia.
Iniziò a giocare Luis Suarez, proprio lui, la leggenda interista, e al Les Corts iniziò in una gara con lo Stoccarda, che conquistò già il pubblico di Barcellona, fino alla fine grato per il suo lavoro, per il suo metterci costantemente la faccia. Allora perché durò appena una stagione? Puppo riuscì a creare un gruppo, una squadra. Era ben voluto dai giocatori e i risultati arrivarono in maniera piuttosto netta: un secondo posto nella Liga, fuori in semifinale della coppa di lega. Fu un richiamo fortissimo a riportarlo in Italia e a fargli lasciare un paradiso terrestre come Barcellona. Il richiamo della Juventus.
Nelle successive due stagioni, Puppo allenò proprio i bianconeri. “La Juve dei Puppanti“, la chiamavano: aveva tantissimi giocatori giovani, anche per questo, e per motivi di salute, non riuscì a inaugurare un vero e proprio ciclo vincente.
Se ne andò presto, nell’Ottantasei a 68 anni. Era malato da tempo e anche per questo preferì riavvicinarsi sempre più a Venezia. Chissà se un giorno qualcuno prenderà il suo primato a esempio.