Delle storie nelle storie, Napoli n’è praticamente piena. È un mondo in costante movimento, che in queste settimane ribolle già per ciò che sarà.
Un paradosso? No, non lì almeno, non dove il cuore batte a ritmo dei punti in classifica: in questo periodo va decisamente al massimo, e coi ricordi arriva ben oltre i trent’anni. Trentatré, per la precisione. Era il 1990 e Marco Baroni che esulta sotto la curva, ecco, aveva fatto impazzire (ancora) una squadra alle prese con i più forti del mondo, probabilmente di sempre.
Sì, perché vincere questa Serie A sarebbe certamente un risultato enorme, importantissimo e meritato. Ma vincere nel calcio italiano di trent’anni fa era una vera e propria impresa. Anche con Maradona. Soprattutto con un club che non avrebbe mai potuto competere dal punto di vista finanziario con i fondi di Milan, Inter e Juventus.
E invece, allora come oggi, a vincere fu il Napoli. Quello di Diego, naturalmente. Ma anche di un vento decisamente diverso da quello passato: nuovo, nuovissimo. Così come l’uomo alla guida tecnica. Dopo tre anni dalla prima affermazione, era stato Alberto Bigon a prendere le redini lasciate da Ottavio Bianchi.
E Bigon era poco più di un Carneade: aveva allenato la Reggina, il Cesena per due anni, ma al massimo aveva ottenuto una salvezza in Serie A. Di campionato, ecco, era quasi impossibile parlarne. Pur avendo il giocatore più forte del pianeta tra le proprie fila.
La squadra
Per carità: non che fosse una squadra da salvezza. Tutt’altro.
Luciano Moggi, direttore generale, aveva creato con Giorgio Perinetti un Napoli d’assalto, che avrebbe potuto raccontare tanto in quella stagione e già reduce dalla vittoria in Coppa Uefa nel 1989.
Tra i pali lo storico Giuliano Giuliani, in difesa si evidenziavano ragazzi tremendi e meravigliosi: l’ex scugnizzo Ciro Ferrara e un giovanissimo Marco Baroni, perla del mercato; in mezzo erano rimasti talenti veri: Alemao, Crippa, lo stesso De Napoli. E davanti? Beh, il capitano era il numero Dieci per eccellenza. Accompagnato da Andrea Carnevale e naturalmente dal brasiliano Careca.
Il mercato
Ecco, proprio in quel mercato lì, il Napoli non si era poi “disunito”, tutt’altro. Erano, semmai, arrivati calciatori davvero interessanti: Baroni dal Lecce, Massimo Tarantino (poi andato in prestito al Monza) dal Catania, mettendo a posto la difesa, che poteva contare anche su Renica.
In mezzo, un colpo da biliardo, per riequilibrare tutto l’assetto: dalla Juventus arrivò Massimo Mauro, per 3 miliardi totali. In attacco, serviva un vice Diego: giovane, forte, di talento e pure di testa. Venne scelto Gianfranco Zola, in arrivo dal Torres (dove finì Di Rocco), e fu la scelta giusta. Pure per il futuro.
La formazione tipo del Napoli dell’ultimo scudetto
E qual era il modulo di quel Napoli lì? Beh, consideriamo sempre la distanza del tempo e dello spazio rispetto a oggi. Se quello di Spalletti è un meraviglioso 4-2-3-1, il secondo scudetto napoletano non arrivava con concezioni e idee (di base) poi così diversi. Anzi. Davanti a Giuliani, c’era Corradini a giocare nel ruolo di libero, con Ferrara sul centro destra, Baroni centrale e Francini sul lato opposto. De Napoli e Crippa sono stati mezzali infaticabili, attorno al metronomo Fusi, con licenza di tenere saldissime le redini della squadra. Come, non Alemao? Il brasiliano, al terzo anno in Campania, era già trentenne e non sempre Bigon si affidò alle sue geometrie.
Si affidò Bigon, eccome, al talento di Maradona: il Diego alle spalle di Carnevale e naturalmente di Careca, idolo assoluto e fondamentale anche in quella stagione, nella quale il capocannoniere fu naturalmente Maradona: 16 gol in totale.
La formazione tipo: Giuliani, Ferrara, Francini, Crippa, Fusi (Alemao), Baroni, Corradini, De Napoli, Careca, Maradona, Carnevale.
La stagione
Una buona stella, comunque, accompagnò quel Napoli in tutta la stagione. In un’annata iniziata con il ritardo di condizione dei giocatori sudamericani – colpa della Copa America che li aveva tenuti impegnati in estate -, gli azzurri avevano ingranato immediatamente la marcia giusta – ricorda qualcosa? -, portando a casa i primi sedici turni di campionato. Mai sconfitti, quattro vittorie nelle prime cinque partite, poco più avanti anche un 3-0 netto al super Milan di Sacchi (con doppietta di Carnevale, poi Maradona). Per capirci: la candidatura al tricolore è stata praticamente immediata.
Dopo le vittorie su Inter, Lecce e Atalanta, nel mezzo i pareggi con Sampdoria e Juventus, la squadra di Bigon arriva alla fine del 1989 con l’ambizione di non perdere. Di non farlo più. Puntuale, arriva il cazzotto: è lo stadio Flaminio, davanti c’è la Lazio di Amarildo. Che fa doppietta, e con Pin sigla il 3-0 pronto a destabilizzare i partenopei. I quali sono in bolla, sì, eppure iniziano a sentire la difficoltà dei pareggi: all’inizio del girone di ritorno sono addirittura otto. Tanti.
Sarebbe servito, a quel punto, un bel filotto: avrebbe pulito lo spirito e riconsegnato l’ambizione da scudetto. E arriva, quasi puntuale: sei vittorie nelle successive otto partite. Le altre due? Ko durissimi, nello stesso stadio, cioè San Siro. Il primo, l’11 febbraio del 1990: Massaro-Maldini-Van Basten e 3-0 netto dei rossoneri di Sacchi; due settimane dopo, 3-1 dell’Inter con autorete di Ferrara, Klinsmann e Bianchi a rispondere all’iniziale gol di Careca.
C’è però una vittoria che ha un peso specifico fondamentale, che apre il filotto concreto, vero, importante e necessario. Inizia, come tante storie, anche quella dell’ultima stagione, da una vittoria interna con la Juventus: 3-1 allo stadio che sarà nominato Diego Armando Maradona, nel quale proprio il Diez decideva con una doppietta il 3-1 rifilato ai bianconeri. Da quel 25 marzo 1990, arriverà la vittoria di Bergamo dell’8 aprile (che approfondiremo), quindi i successi con Bari, Bologna e la rete di Marco Baroni al minuto 7 di Napoli-Lazio. Storica. E tricolore.
La monetina di Alemao
Ciò che non racconta la stagione del Napoli è il fiato sul collo che il Milan ebbe per tutto per il percorso a tappe del campionato.
Il primo aggancio del Milan arriva a fine febbraio, sorpassando gli azzurri dopo lo scontro diretto vinto a San Siro; i rossoneri avevano anche eliminato gli azzurri in semifinale di Coppa Italia, proseguendo a vele gonfissime verso un finale di stagione presumibilmente da protagonisti. Bene: il Napoli non ha mai mollato. Arrivando al contro-aggancio il giorno 8 aprile. Pure qui: ricorda qualcosa?
Vedi poco più su, nel caso. Si torna a Bergamo, nella quart’ultima giornata con polemiche di fuoco e su campi diversi. I rossoneri si fermano sullo 0-0 a Bologna, che recrimina in maniera feroce per un gol fantasma negato. Il Napoli ottiene lo stesso risultato all’Atleti Azzurri d’Italia.
Sembrerebbe un nulla di fatto, se non per i tre punti decisi a tavolino a causa di una monetina da 100 lire lanciata dagli spalti. Quelle 100 lire valsero un sogno: Alemao venne colpito alla testa, e influenzato anche dal massaggiatore Salvatore Carmando, diede forfait e denunciò l’accaduto.
Venne data la vittoria agli azzurri, sollevando un caso nazionale, aizzato da tv e commentato praticamente da ogni opinionista vicino al mondo del calcio. Celebre, in tal senso, il duello a distanza tra Aldo Biscardi – che portò la monetina al Processo del Lunedì – e Gianni Brera sulle colonne di Repubblica.
Proprio Brera predisse in un certo senso il finale, in una trascrizione ironica del pensiero di De Mita, storico onorevole della Democrazia Cristiana: “Vede il Milan slittare sul piano inclinato della cottura: Hai vedute Van Bastenio e Donaddone? Non correne più. Mentre ‘ o Napule, quello vola, galvanizzato dal 2-0 colto a tavolino”.
E sì, il Napoli correva. Eccome. Approfittando della fatal Verona: la squadra di Berlusconi, che per Brera “non parlava più”, era caduta al Bentegodi per 2-1, permettendo al Napoli di riprendere il primo posto dopo il 4-2 a Bologna a mezza curva dalla bandiera a scacchi. Marco Baroni ha scritto il resto della storia.