La storia della Juve in Champions League per qualcuno è diventata un’ossessione – in particolare per chi l’ha sfiorata a più riprese -, per altri è tornato un “desidério”.
Con la ‘e’ aperta e spalancata dalla parlantina di Max Allegri, che ha messo a posto ed esaltato allo stesso tempo una buona fetta del popolo che è tornato a guidare. Magie della comunicazione. E di una comunicazione consapevole, poi.
Perché niente e nessuno come l’argomento Champions League ha dato da parlare, sperare, godere e (tanto) soffrire come la Champions. Sfiorata sette volte(!), raggiunta appena due. E l’ultima risale al 1996; 25 anni fa.
La storia della Juve in Champions
C’è da dire che la Juve non ha avuto una preferenza naturale al campionato: a volte se l’è proprio imposta, lasciando campo e squadra B in balia di trasferte, problemi, logistica.
Quando, e parliamo dell’inizio degli anni Ottanta, la Juve aveva assaporato cosa volesse dire una finale europea, il trend è magicamente cambiato: nelle notti e nelle trasferte più insidiose, nessuno osava nascondersi, l’obiettivo era diventato imitare la voracità europea dell’Inter di Herrera. La generazione sembrava anche quella giusta.
Così, nel 1985, assolutamente conscio di avere a disposizione una squadra di meravigliosi match winner – parliamo di Paolo Rossi e Platini, di Tardelli e Cabrini – da quel target Giovanni Trapattoni non seppe distaccarsi: ai tempi era un tecnico ambizioso e spettacolare, la Coppa Campioni era tutto ciò che avrebbe consacrato la sua squadra e definitivamente. Vittoria arrivò, non fu nulla di esaltante. Il contorno, l’Heysel, cancellò tutto l’entusiasmo di una vittoria che si attendeva da anni.
Le vittorie in Champions della Juve
Buona la terza, alla fine. E buona solo per il palmarés, che poté contare finalmente sulla massima competizione continentale al terzo e tragico tentativo. Ma dove e quando la Juve ha vinto una Champions? Andiamo a vedere nel dettaglio.
La Coppa Campioni del 1985: il dramma dell’Heysel
Il primo successo fu con Giovanni Trapattoni in panchina, e una squadra fortissima che andava ormai con il pilota automatico. La finale fu teatro di una tragedia immane, ma prima di arrivare all’Heysel e al ricordo, è opportuno ricordare il percorso dei bianconeri in quella competizione.
Intanto, la vittoria ai sedicesimi contro i finlandesi dell’Ilves (4-0 andata e 2-1 al ritorno per la Juve). Poi gli ottavi: 2-0 all’andata e 4-2 al ritorno contro il Grasshoppers.
Ai quarti? Il momento forse più duro: 1-0 in trasferta dallo Sparta Praga, per fortuna poco prima era arrivato un 3-0 netto, secco, senza scampo. E nessuno scampo neanche per il Bordeaux: fu nuovamente sconfitta al ritorno, ma il gol degli juventini faceva una somma maggiore.
Arrivò allora il Liverpool, che un anno prima aveva sollevato la coppa. Nel pre partita, gli hooligan britannici causarono la morte di 39 persone, tifosi di entrambe le squadre.
Nessuno voleva giocare: alla fine la palla andò al centro. E fu una partita bella, combattuta, equilibrata, ma con la morte nel cuore. Vinse la Juve. Segnò Platini e su rigore. Per la prima Coppa in assoluto.
Finale 1996 contro l’Ajax sotto il cielo di Roma
Da Trapattoni a Lippi, due allenatori nel firmamento delle pagine bianconere. Non è un caso che c’era, ci sarà e c’è sempre un doppio filo di connessione tra questi due tecnici, che in tanti rivedono anche in Allegri (ma la Champions, lui, l’ha solo sfiorata), e che tanti hanno paragonato anche per il tipi di squadra: forte, umile, pronta al sacrificio. E con campioni veri.
Se il Trap aveva Platini, Lippi rispondeva con Del Piero. Se il Trap sfoderava Tardelli, Lippi confidava in Antonio Conte. Paolo Rossi? Certo, ma anche Gianluca Vialli.
La Juve era una macchina da guerra e dopo aver battuto Steaua Bucarest e Borussia Dortmund nei gironi, ai quarti arrivò il Real Madrid: 2-1 diretto ai blancos e accesso alle semifinali, dove trovò il Nantes. Come finì? Pure qui: una scalata a mani nude. 4-3 spettacolare e meraviglioso, soprattutto al triplice fischio.
Era desiderio fortissimo di quella Juve provare a giocarsela fino in fondo, anche perché l’epilogo si sarebbe tenuto a Roma. Occasione irripetibile.
Andò così. Secondo i sogni. Davanti l’Ajax, ancora una volta i campioni in carica a un passo dal titolo. E come una legge non scritta eppure sempre rispettata, dopo l’1-1 furono decisivi i rigori: neanche un errore juventino. Titolo.
Le finali perse
Qual è il limite tra ‘tanto’ e ‘troppo’? Si parla chiaramente di sensazioni. Di percezione. Ognuno è fatto a suo modo e la Juve alle volte sembra lontana dall’esser fatta per la Champions League. Non è un commento, ha le caratteristiche del dato di fatto: in 9 finali, i bianconeri ne hanno perse addirittura 7. Dal 1973 al 2017.
La finale del 1973 contro il grande Ajax
La prima delle finali perse arrivò nel 1973. Nota a margine: era un’altra squadra pazzesca. C’era già Dino Zoff, giovanissimo, e c’era in mezzo al campo Fabio Capello, che pure da allenatore soffrì maledettamente l’esito dell’illusione.
Davanti un Altafini a mezzo servizio, però utilissimo. Dopo una competizione molto particolare, arrivò il primo scontro con l’Ajax: 1-0 per gli olandesi, ma era un trionfo scritto. Da calcio totale.
La finale 1983: la clamorosa sconfitta contro l’Amburgo
Probabilmente il dolore più lancinante di tutti, per i tifosi bianconeri. La Juve del 1983, quella del primo ciclo Trapattoni, era stata costruita per vincere tutto e per farlo in maniera dominante.
Arrivò però la seconda sconfitta, inaspettata e contro un avversario che definirlo alla portata pare poco: Felix Magath, con una botta da fuori, regalò vittoria e coppa ai tedeschi.
Il ciclo degli anni Novanta con due finali perse consecutive
Qui si è concretizzata la maledizione, perché la Juve, dopo la vittoria di Roma, era diventata la squadra più forte al mondo ed era stata costruita in maniera tale da rimanere a quei livelli.
Eccoci qui: 1997, finale contro il Borussia Dortmund e 3-1 per i gialloneri. Nel 1998, altra botta colossale: davanti c’era il Real Madrid, amico e nemico di una vita, che s’impose ancora per 1-0.
Il derby italiano del 2003
L’edizione della Champions League del 2003 fu tra le più belle e spettacolari di sempre, almeno per il calcio italiano.
Nel gruppetto dei semifinalisti c’era la Juventus, poi il Milan e l’Inter che si sarebbero scontrati in semifinale. Tutti si aspettavano una rappresentanza tricolore, in pochi che ci sarebbe invece stato un derby tremendo e bellissimo.
Con lo storico doppio confronto contro il Real Madrid (super Nedved), la Juve si trovò a un passo dal sogno e quel passo indietro lo impose Nelson Dida. Arrivarono ai rigori dopo una partita tiratissima: lo sguardo di Sheva sarà per sempre storia.
Il ciclo Allegri
Mentre la ricostruzione sembrava essere ormai arrivata al culmine, la Juve nel 2015 si ritrovò senza la sua guida (Antonio Conte) e con una contestazione in atto ancor prima di iniziare la stagione.
Ecco: la stagione terminò con una finale di Champions, costruita partita dopo partita e coltivata in un doppio confronto thriller in semifinale, ancora contro il Real Madrid.
A Berlino, sede dell’epilogo, il Barcellona più forte di tutti: via Guardiola, salutato Villanova, c’era Luis Enrique e un tridente delle meraviglie. Troppo forte. Troppo più forte. Neymar-Messi-Suarez: adiòs ai sogni di gloria.
Due anni più tardi, Allegri riuscì a costruire una squadra in grado di reggere e ripartire, e andare fino in finale. Dopo un percorso tutto sommato agevole – certo, ai quarti il 3-0 al Barcellona è una delle pagine più belle – a Cardiff, in finale, arriva il Real Madrid. Chi la decide? Cristiano Ronaldo. E Casemiro. E Asensio.
Ed è disfatta: 4-1 e settima medaglia d’argento.