Gli inglesi non sono mai stati dei gran combattenti. Almeno fino a quando (8 giugno del 793, per essere precisi) una prima, sparuta e insieme feroce invasione da parte dei vichinghi a Lindisfarne (Northumbria) contagiò entropicamente quel popolo allora unito ma non ancora selvaggio.
Inizia in quel momento, se vogliamo, la grande storia degli hooligans inglesi: come si legge dal Cambridge Dictionary, “persone violente che combattono o provocano danni in luoghi pubblici”.
La nostra analisi, tenendo fede alla definizione appena letta, si dispiegherà dunque in tre tappe:
- a) chi sono gli hooligans, qual è il loro contesto sociale e come si rapportano allo stesso;
- b) perché il fenomeno hools, connesso al football e alla sua fruizione allo stadio da parte del tifoso, è associato a quello della “violenza”;
- c) quali sono, storicamente, le fasi – o gli eventi – che hanno scandito il problematico rapporto tra hooligans e luogo pubblico (ivi compreso il governo inglese).
Chi sono davvero gli Hooligans
Abbiamo già visto la definizione che degli hooligans dà il Cambridge Dictionary, ma da dove viene – etimologicamente – il termine? Come sottolineato da Indro Pajaro, è possibile che “hooligans” derivi dall’irlandese “houlihan”, il cognome di una immaginaria famiglia di accaniti bevitori menzionata in alcuni canti popolari e in alcuni fumetti del XIX secolo.
Ci si potrebbe interrogare sull’eccessiva antichità di questa origine terminologica, ma del fenomeno “hools” si hanno già notizie a partire da fine Ottocento.
Da quando, cioè, nell’aprile del 1894 il quotidiano inglese Daily News descrisse Charles Clarke, accusato di aver aggredito un agente di polizia, come «il capo di una banda di giovani nota con il nome Hooligan Boys».
La morte di Charles quattro anni dopo, in seguito ad uno scontro tra gang, diede al termine ulteriore notorietà, soprattutto a livello mediatico. Il football, fin qui, non è ancora citato dalle fonti accanto ad hooligans
Il rapporto tra Hooligans e violenza
Per capire il fenomeno hooligans non si può prescindere dalla narrazione di violenza più o meno episodica che connota il tifo inglese – locale e nazionale – fin dagli albori della storia del calcio britannico.
A differenza cioè degli Ultras italiani – e poi di tutta Europa, nell’est ma anche nell’entroterra continentale in Germania e in Francia – la nascita dei primi gruppi organizzati segue e non precede i fenomeni di violenza allo stadio.
In Italia, per dirla altrimenti, il fenomeno Ultras è successivo rispetto al formarsi di gruppi più o meno grandi di sostenitori stretti intorno alla squadra di calcio, e la sua “storia violenta” coincide con un momento particolarmente drammatico a livello sociale nel Belpaese: quello della nascita dei partiti ribelli negli Anni di Piombo (Paparelli muore nel 1979, De Falchi nel 1989). Fino a quel momento, in Italia il tifo non aveva una connotazione né violenta né – soprattutto – politica.
In Inghilterra le cose stanno diversamente.
La nascita del professionismo (1885) coincide infatti con il primo episodio di violenza registrato per una partita di calcio. Al termine dell’amichevole tra Preston North End e Aston Villa (5-0 per i padroni di casa), le due squadre furono intercettate sul terreno di gioco dai tifosi di entrambe le squadre: pietre, cocci, calci vennero scagliati in direzione dei giocatori, e un tifoso del Preston North End perse coscienza per qualche attimo.
La stessa tifoseria, l’anno dopo, si scontrò per la prima volta nella storia fuori dal rettangolo verde alla stazione di Preston con i rivali del Queens Park Rangers – storica squadra londinese, oggi sepolta nelle serie minori del calcio inglese.
Come riporta un report dello studioso e sociologo John Hutchinson, «tumulti, azioni indisciplinate, brutalità, aggressioni e vandalismo sembrano essere stati un modello consolidato, ma non necessariamente dominante, nella condotta della folla alle partite di calcio almeno a partire dal 1870».
Cosa intende Hutchinson con “modello consolidato”? Quello che, con altre parole, scrivevamo ad inizio capitolo: in Inghilterra, già dagli albori del football, tifo e violenza vanno di pari passo, scaturendo non tanto dal contesto di gioco quanto da quello sociale. I tifosi erano in prevalenza membri di quella working-class che vedeva nel calcio uno sfogo dalla brutale routine lavorativa quotidiana, comunque già impregnata (nel lavoro di fabbrica) da un codice di durezza, violenza e meccanicità.
A quest’ultimo aspetto si ricollega l’altro ramo del fenomeno hooligans in quanto fenomeno socialmente violento e destabilizzante: il senso di eccitazione, mascolinità e rivalità espressi dal gioco che le bande giovanili di età vittoriana assumevano come pretesti per scontrarsi contro gruppi rivali, trasferendo sulle gradinate linguaggi e comportamenti della strada.
È, quest’ultimo, un carattere peculiare del movimento Ultras italiano e tedesco, che ha un curioso precedente nella storia: la jeunesse dorée dei ricchi parigini borghesi in piena Rivoluzione Francese. Come riportato dall’ottimo I. Pajaro, l’hooliganismo ebbe un calo al sorgere della guerra in Europa. I registri della Football Association parlano di 71 episodi annotati tra il 1921 e il 1939 e negli anni del dopoguerra diversi giornali elogiarono a più riprese il comportamento pubblico dei tifosi nelle finali di FA Cup.
Un evento, quello della finale del massimo trofeo inglese, che spesso ha messo di fronte piccole e grandi squadre, e dunque potenzialmente esplosivo – nonché coevo all’altro grande evento dello sport inglese che si disputa in quel periodo, Wimbledon: connotato al contrario dall’eleganza e dalla morigeratezza degli appassionati.
Curiosamente, comunque, dal tennis il movimento hools ha preso tanto quando – in seguito alle trasferte europee dei tifosi del Liverpool negli anni 70 e 80 – decise (più o meno passivamente) di “vestire bene per comportarsi male”.
Parliamo di un movimento interno a quello hooligans: i Casuals, che vestendo alto-borghese (con marchi scovati in giro per l’Europa quali Sergio Tacchini, Lacoste, Fila, Fred Perry, etc.: tutti brand connessi al tennis professionistico) riuscivano nell’intento di confondere la gendarmeria fuori dallo stadio, al fine appunto di comportarsi male (scontrarsi cioè con le tifoserie avversarie dopo aver eluso l’intervento delle forze dell’ordine, fenomeno che si prolungherà in Italia dalla metà degli anni 90 ad oggi).
Comunque sia, il grande ritorno del movimento hooligans e i problemi ad esso connessi – dopo la pausa di circa un trentennio tra lo scoppio della Grande Guerra e il dopoguerra – giunse di pari passo con l’intrecciarsi delle prime sottoculture – quella Casuals, negli anni ’80, fu solo l’appendice di quelle.
E quindi ecco arrivare allo stadio i Teddy Boys, gli Skinhead, gli Acid-House fans, i Mod, i Rocker. Senza entrare nei dettagli di un così variegato mondo, basti un parallelo col nostro paese: la nascita e lo sviluppo dei cosiddetti Paninari milanesi, che precedettero di qualche anno il fiorire del movimento Casuals in Italia.
La differenza? Molta meno violenza, molta più attenzione alla componente socio-culturale (come l’elezione dell’aperitivo a momento topico della giornata). Lo sviluppo di quelle sottoculture trovò negli stadi – soprattutto nelle cosiddette end, i settori popolari – il terreno fertile per una pericolosa fioritura mista.
Allo stadio non si andava per vedere la partita di pallone – anche perché fino alla fine degli anni 90, in Inghilterra, c’è poco da vedere – ma per imporre il proprio stile, il proprio portato socio-culturale, eventualmente la propria fede calcistica (sempre e comunque connotata socialmente, mai svincolata dal contesto).
In un certo senso, il fenomeno assomiglia più all’ingresso della politica negli stadi italiani che non alla formazione di gruppi ultras in Germania sul finire degli anni 80.
Come è stato contrastato il fenomeno Hooligans
L’Inghilterra, detto altrimenti, capì di avere un serio problema di ordine pubblico e insieme sociale con gli hooligans.
Trattato per decenni come intoppo domenicale – o sabatino –, il governo inglese (già a partire dal 1968) aprì il dibattito al tavolo degli esperti (sociologi, psicologi, filosofi) per capire come affrontare il movimento hools.
Gli studiosi, al termine delle prime indagini, ammisero la difficoltà di analizzare un fenomeno che – per la sua natura fortemente inter-disciplinare – non si prestava a facili interpretazioni.
Così Sir John Lang, vicepresidente dell’Assessorato dello Sport, decise di aprire un working party composto dai rappresentanti delle federazioni calcistiche e delle leghe, dal Segretario di Stato per gli Affari Interni, dalle forze di polizia e dai rappresentanti di calciatori e dirigenti. I risultati del report furono però meno soddisfacenti delle premesse: Lang concluse che non poteva esistere una «soluzione unica a un problema che è spesso dovuto a una combinazione di fattori».
Il merito di Lang, tuttavia, fu quello di prendere davvero sul serio il fenomeno, tanto da far nascere una vasta letteratura in merito. Studiosi come Ian Taylor (1971) e John Clarke (1978) produssero affascinanti lavori sociologico-culturali sul fenomeno. Alla scuola di Oxford, venne addirittura curato un volume dal titolo The Rules of Disorder che abbandonando l’approccio sociologico puntò sull’osservazione diretta dei tifosi dell’Oxford United: fu scoperta una curiosa e sinistra attinenza tra i comportamenti degli hooligans e i meccanismi di costruzione del panico morale e dei folk devil descritti da Cohen (la violenza degli stadi è un rituale).
Ma gli studiosi che più di tutti si avvicinarono all’essenza del fenomeno furono quelli della cosiddetta Scuola di Leicester (E. Dunning, P. Murphy e J. Williams).
Secondo questi studiosi, l’origine dei fenomeni violenti degli hooligans andava ricercata nella genesi sociale di quelli, rappresentanti della lower– o (tutt’al più) middle-class che nello stadio vedevano il riscatto (violento) di una vita insoddisfacente.
Una visione criticata ad esempio dal sociologo Gary Armstrong, ma recentemente rivalutata alla luce della riscoperta di un testo cardine sul fenomeno football: La tribù del calcio di Desmond Morris (1981), dal cui titolo è facile intendere l’idea di fondo dello studioso – il calcio è un fenomeno rituale, una religione secolarizzata che in quanto tale ha i propri riti, il proprio culto e i propri fedeli, legati tra loro da una fratellanza primordiale-tribale.
Quale che sia il miglior studio antropologico, politico, culturale, psicologico e sociologico sul fenomeno degli hooligans, quel che è certo è che il polemos – la battaglia interiore ed esteriore – ne connota fortemente l’azione. Non si ebbero più dubbi su questo dopo due drammatici episodi avvenuti nel 1985: il rogo di Bradford – stadio privo di estintori per paura che potessero venire usati come armi dai tifosi – e la strage dell’Heysel.
Il governo Thatcher, che già aveva avviato un piano di reazione al fenomeno hooligans dopo Luton Town-Millwall di FA Cup (con l’implementazione delle telecamere e il conferimento di maggiori poteri alla polizia, nonché il divieto di vendita di alcool negli stadi e il miglioramento di recinzioni, l’aumento del numero di all-ticket e l’introduzione dell’uso delle carte d’identità per i tifosi paganti), rispose con ancor più vigore attraverso misure preventive e repressive: le gabbie e le recensioni divennero la cornice abituale nell’esperienza da stadio. Il cosiddetto Popplewell Report è ancora oggi indicato dagli hooligans inglesi come l’inizio della fine del movimento in Inghilterra.
Altri interventi della politica vennero attuati per placare definitivamente l’orda hools. Nel 1985 la regina Elisabetta II emanò lo Sporting Events Act per contrastare il consumo esagerato di alcolici – la diabolica pozione dietro l’estasi dei tifosi.
L’anno seguente il Public Order Act introdusse gli exclusion order con i quali la magistratura poteva proibire l’ingresso negli stadi ai tifosi violenti. Il malessere degli hooligans montava giorno dopo giorno, e il disgusto dei tifosi medi – fino a quel momento semplici spettatori del fenomeno – accrebbe pericolosamente intorno al governo e alle forze dell’ordine. Se in quella fase gli incidenti tra tifoserie sono ridotti, quelli con le forze dell’ordine aumentano a dismisura.
Anche a causa di impianti fatiscenti e malandati, chiese decadenti del football nuovo ma ancora terribilmente antico. Sopra il calcio inglese si alzò una coltre composta di violenza, insicurezza e sfiducia, che si scagliò come un’onda anomala sul celebre stadio di Hillsborough – la più grande tragedia del football britannico.
Nel 1989, mentre in Italia moriva Antonio De Falchi, il Parlamento approvò il Football Spectators Act, con cui si introduceva la National Membership Scheme, un sistema di schedatura nominale che avrebbe fatto scuola anche per gli altri paesi. Il quadro venne completato dal Football Offences Act del 1991 (sugli specifici reati da stadio) e dal Football Offences and Disorder Act del 1999, che aumentava a dieci anni il tempo di interdizione dagli stadi per condotta violenta.
L’aumento del prezzo dei biglietti, che oggi a più di vent’anni di distanza costituisce un serio problema per gran parte delle tifoserie inglesi, è stato recentemente rivisto dalla Premier League, che ha deciso di comune accordo con i club di imporre una tariffa massima (30 sterline) sul prezzo per i tifosi ospiti.
In questo ventennio in Inghilterra gli hooligans sono vieppiù scomparsi – in modo inversamente proporzionale rispetto al restauro e alla creazione di nuove strutture per il football – e il calcio è diventato spettacolo di massa, non più rito popolare.
Molto si è perso dell’originario spirito british tipico del football inglese e della sua gente, ma molto si è anche guadagnato in materia di ordine pubblico.
Oggi gli stadi inglesi sono teatri, e il rischio è che la direzione presa 37 anni fa dal governo Thatcher possa piano piano prendere piede anche in Italia – la Juventus ne è un esempio lampante.
In attesa di scoprire la formula magica per una sana via di mezzo.