Non esiste, al mondo, una terra tanto affascinante quanto problematica come la Colombia. I colombiani sono persone meravigliose. Conoscerne per crederne. Ma la Colombia è un posto maledetto. È in questa regione del Sud-America, infatti, che dagli anni Sessanta del Novecento, con il picco massimo degli anni Ottanta, Colombia fa rima – disgraziatamente, non baciata – con Narcotraffico.
Qui non possiamo esimerci dal banalizzare anzitempo un articolo che, nella sua brevità, vuole raccontare una storia che richiederebbe, per amor d’indagine, almeno un libro o un docu-film: Escobar fa rima con Escobar. Da una parte il più antico e celebre Pablo, dall’altra il più recente e sfortunato Andrés. Il parallelo, però, non è solo onomatopeico. È vero: la Colombia è una terra che fonde al sangue la poesia. Ma in questo caso lo fa con una durezza che richiede parole secche e concise.
Quella notte maledetta
È il 2 luglio del 1994. Andrés Escobar, difensore della nazionale colombiana di calcio, decide di sfogare i malumori su di lui piombati dopo l’eliminazione della Colombia dal Mondiale di USA 94 in un paio di bicchieri d’aguardiente. Un gruppo di loschi figuri s’avvicina al giocatore con fare intimidatorio, schernendolo a più riprese. È a quel punto che accade l’impensabile.
Humberto Muñoz Castro punta Andrés e lo fredda con un paio di scellerati colpi di pistola, mentre Escobar si trova nella propria vettura. La corsa in ospedale è del tutto vana. L’omicidio sconvolge un Paese già sconvolto, negli anni precedenti, dall’omonimo narcoregime dell’Escobar Pablo. Chi è, però, Humberto Castro?
Il vuoto di potere lasciato proprio dalla morte di Pablo Escobar si traduce, già nelle ore successive alla scomparsa del più celebre narcotrafficante della storia, in una sanguinolenta quanto tragica lotta per salire al “trono” o, più correttamente, per mangiarsi una parte, anche piccola, di una torta che frutta milioni e milioni di dollari.
Tra i pretendenti al dolce c’è la famiglia medellinese dei Gallon Henao. Alcuni membri della famiglia si trovano proprio nel luogo dove Escobar Andrés vive le ultime ore della sua vita: ad El Indio. Eccoci alla soluzione del dilemma, dunque. Sì, perché Humberto Muñoz Castro altro non è che uno dei guardaspalle al seguito della famiglia Henao.
Quale, però, per quanto assurda, la ragione di un tale gesto? Facciamo un passo indietro, al Mondiale del ’94.
L’assurdo pretesto per uccidere
Siamo in America. Per la precisione: Stadio Rose Bowl di Pasadena. Più di 90.000 yankee sono pronti a supportare, alla maniera del football americano, la propria nazionale di calcio, quel giorno in campo contro la Colombia del c.t. Maturana. Nella prima partita del girone la Colombia ha perso per 3-1 contro la Romania, e ha dunque un disperato bisogno di fare punti. Ma i punti li fanno gli States. 2-1, con episodio del crimine al minuto 34.
Harkes (USA) si trova sulla fascia ed è pronto ad effettuare un cross in mezzo. Il suo tentativo, pericoloso fino a un certo punto, diventa letale nel momento in cui proprio Andrés Escobar lo va ad intercettare buttandosela dentro da solo. Autorete. E condanna a morte.
«La vida no termina aquì». Questa la celebre dichiarazione con la quale si apriva la prima pagina di El Tiempo – uno dei quotidiani più importanti della Colombia – all’indomani di quella sciagurata sconfitta. Quasi a voler stemperare gli animi prima che la vicenda da sportiva diventi tragica; quelle parole sono un virgolettato trascritto dal suono della voce e della pronuncia di un ragazzo, Escobar, che è tra l’altro tra i migliori giocatori di quella nazionale.
Un gioco troppo importante
“Per tutti ha pagato il più bravo, semplicemente il più bravo. Quello che per doti umane e calcistiche era destinato a essere per sempre un modello per questo Paese”. Nel giorno del funerale del ragazzo, non rimangono che queste parole del c.t. Maturana, se vogliamo doppiamente agghiaccianti. In primis perché il verbo pagare qui è davvero fuori luogo. Si paga una scommessa, si paga una tassa (da pagare). Non si paga con la vita un autogol. In secundis perché testimoniano, nella loro verità, la durezza di un fatto ineluttabile: il calcio non è solo uno sport.
Perché è certo come l’oro che tra i 120.000 presenti all’ultimo saluto ad Escobar Andrés, si nascondesse qualche antico adepto di Escobar Pablo. E così, di quella Nazionale che, sotto la chioma dorata del Pibe Valderrama, inflisse uno storico quanto sonoro 0-5 in casa dell’Argentina – salutato dal premio Nobel Gabriel Garcia Marquez come “uno dei tre grandi avvenimenti del Novecento colombiano” – di quella squadra, dunque, non rimane che la cenere di un ragazzo colpevole di aver sbagliato un gesto tecnico.
Il calcio, dunque, che non è solo calcio. Ma qui davvero non è soltanto calcio. L’ipotesi d’omicidio più accreditata parla infatti di un’esecuzione dettata dalla rabbia, quella del cartello di Cali che, proprio a causa dell’eliminazione della Colombia, avrebbe perso un’ingente quantità di capitali scommessi sul passaggio del girone. Non esiste al mondo una terra tanto affascinante quanto problematica come la Colombia.