Gli sponsor sulle maglie hanno una storia che quasi si intreccia e si fonde con i colori delle squadre che amiamo. Inutile negarlo anche se la natura di queste caratterizzazioni della divisa da gioco non hanno nulla a che fare con il romanticismo nello sport.
E nel calcio in particolar modo, dato che da tempo di addita il “Dio Denaro” come fonte di tutti i mali per questo gioco riconosciuto dai più come rovinato sotto i colpi dei quattrini di sponsor e televisioni.
Fatta la legge trovato l’inganno: l’inizio delle sponsorizzazioni
L’attrazione fatale tra le aziende e il calcio è vecchio quasi quanto il pallone stesso. Inizialmente la Federazione non vedeva di buon occhio la possibilità di concedere le sponsorizzazioni come avveniva per altri sport, ciclismo su tutti, ma questo non fermò l’inventiva e lo spirito d’iniziativa di imprenditori e presidenti. Che – per inciso- spesso coincidevano nella stessa persona.
I primi casi di legami tra aziende e squadre di calcio lo dobbiamo alle asprezze della Seconda Guerra Mondiale: all’epoca era forte la preoccupazione di presidenti e calciatori di ritrovarsi invischiati nel conflitto bellico, ed ecco quindi che viene ideato un escamotage per consentire agli atleti di non dover partire verso il fronte.
A Torino sono proprio i granata locali e la Juventus a fare da apripista verso la commistione tra imprese e calcio: sfruttando la consolidata pratica dei «dopolavoro» aziendali, in cui il calcio fa la parte del Leone, le due formazioni si associano a due case automobilistiche della città andando in pratica a sostituire e costituire le nuove squadre di quelle fabbriche.
Curiosamente, diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, il Torino si associa alla Fiat e la Juventus alla Cisitalia, casa automobilistica torinese scomparsa nel 1963 ma attiva durante il periodo della Guerra.
Le motivazioni commerciali erano ancora secondarie, molto più importante ai fini di questi “gemellaggi” era consentire agli atleti di essere assunti sulla carta come operai delle case automobilistiche settore che, essendo strategico durante il periodo bellico, garantiva l’esenzione dal servizio di leva. Questo permise ad esempio al grande Silvio Piola di vestire la maglia granata del Fiat Torino per qualche partita.
Superata la guerra non finisce la voglia di aziende e calcio di incontrarsi in un matrimonio fruttuoso per entrambi: sulla scorta di quanto accaduto nel periodo bellico si diffonde la pratica dell’abbinamento, vale a dire di collegare il nome di un’azienda a quello di una squadra variando la denominazione sociale della società sportiva e anche il logo se necessario.
Questo permetteva di aggirare le regole imposte dalla Federazione che vietava l’applicazione di marchi sulle maglie da gioco.
Ecco quindi che nascono alcuni esempi rimasti storici, su tutti quello del Lanerossi Vicenza, che in seguito all’acquisizione della squadra da parte del lanificio Rossi mutò il proprio nome e il proprio stemma, applicando sulle maglie la tipica R che vista sulle maglie biancorosse dal 1953 fino al 1990.
Altri esempi celebri furono il Simmenthal Monza (dal 1955 al 1964), l’Ozo Mantova ( dal ’55 al ’60) il Sarom Ravenna (1954-1964) e un curioso Zenit Modena dal sapore molto sovietico.
Sfortunato il caso del Talmone Torino, che vide per una sola stagione l’abbinamento del nome dell’azienda dolciaria alla squadra granata in un’annata disgraziata culminata con la prima storica retrocessione in serie B del Toro proprio nel decennale della strage di Superga.
Sponsor tecnici, pantaloncini e altri espedienti
Sul finire degli anni 70′ la pressione commerciale sulle squadre di calcio è sempre più alta, e i presidenti sono fortemente attratti dalla possibilità di ricevere un cospicuo aiuto economico nella gestione delle società.
La stagione 78/79 è quella in cui inizia a cadere il muro di resistenza eretto dalla Federazione verso le sponsorizzazioni: viene per la prima volta consentito alle squadre di apporre sulle proprie divise da gioco il logo dello sponsor tecnico, purché questo non superi le dimensioni di 12 cm².
Nella stessa stagione fa scalpore il caso dell’Udinese, presieduta all’epoca da Teofilo Sanson proprietario dell’omonima azienda alimentare attiva nella vendita di gelati.
Sfruttando un cavillo del regolamento – che parla della sola maglia da gioco – il presidente bianconero piazza il nome dalla sua azienda (la gelati Sanson appunto) sui pantaloncini della squadra creando un caso mediatico. Viene comminata una multa di 10 milioni di lire e intimata l’immediata rimozione della scritta: il dado però è tratto e si tratta del primo caso in assoluto in Italia di un marchio commerciale apposto su una divisa da gioco. (non in Europa però considerato il caso dell’Eintracht Braunschweig e dello Jagermaister nel 1973)
Nella stagione successiva il capofila dei presidenti intraprendenti è Franco D’Attoma, fresco di secondo posto con il suo Perugia imbattuto e voglioso di tentare l’assalto ad un clamoroso scudetto piazzando il colpo di mercato Paolo Rossi dal Lanerossi Vicenza (a volte il destino…).
Per finanziare l’operazione (anche se solo in prestito…) il patròn del Grifone trova l’aiuto del gruppo alimentare Buitoni-Perugina (IBP) che si presta alla sponsorizzazione con il marchio Pastificio Ponte. Ma c’è bisogno di un altro piccolo trucco per aggirare le norme federali.
L’idea di D’Attoma è semplice quanto geniale: costituisce un marchio di abbigliamento tecnico chiamato per l’appunto Ponte Sportsware, con lo stesso logo del pastificio e si prende tutto lo spazio consentito dai regolamenti sulla maglia da gioco: si assiste di fatto al primo esempio di sponsor su una maglia da gioco, rompendo un tabù che era stato solo scalfito dai pantaloncini dell’Udinese della stagione precedente.
Curiosamente l’unica maglia del Grifone che non porta questo marchio è proprio quella di Paolo Rossi a sua volta legato da una sponsorizzazione personale con la Polenghi e pertanto impossibilitato per contratto ad esibire un altro marchio.
L’inevitabile accettazione degli sponsor
Con le mosse plateali di Sanson prima e D’Attoma poi, cade il velo di ipocrisia che attanaglia il concetto degli sponsor applicati alle maglie da gioco.
Nel corso della stessa stagione 79/80 lega Calcio e FIGC autorizzano il Perugia a mantenere la scritta Ponte sulle maglie: la prima volta di uno sponsor “ufficiale” su una maglia è quindi datato 23 Marzo 1980. L’evento rimane al centro dell’attenzione per poche ore però: al termine di quella giornata di campionato scatteranno le manette per l’esplosione dello scandalo del Totonero che sconvolgerà il calcio italiano.
Dalla stagione 81/82 la Federcalcio autorizza definitivamente l’applicazione degli sponsor sulle magliette indossate durante la partita. Da lì in poi sarà una continua escalation, con le misure dei marchi commerciali che diverranno sempre più grandi, fino alle attuali regole che prevedono la possibilità di due sponsor frontali e uno posto sul retro della maglia.
Nonostante l’idea che si possa avere sull’intervento del denaro nello sport, il massiccio afflusso di soldi proveniente dalle sponsorizzazioni (e la contemporanea apertura delle frontiere per gli stranieri) ha dato la linfa vitale per la creazione di due decenni irripetibili per la nostra seria A, con tutti migliori giocatori a contendersi domenica dopo domenica lo scudetto.
E tutti questi campioni portavano per il campo una maglietta, che oltre ai colori sociali aveva anche uno sponsor a renderla immediatamente riconoscibile.
Del resto se pensiamo a Falcao lo vediamo con la maglia giallorossa con la scritta Barilla, se pensiamo a Platini possiamo scorgerlo con le righe bianconere interrotte dalla scritta Ariston.
Le treccine di Gullit scendono sulle spalle di una maglia rossonera griffata dallo sponsor Mediolanum, e una botta da fuori di Matthäus contorce la maglia nerazzurra solcata dalla scritta Misura.
Potremmo andare avanti all’infinito, citando la maglia di Maradona del 10 Maggio 87 giorno del primo storico scudetto napoletano che per tutti è la maglia con la scritta Buitoni, ma ci sarebbero anche da ricordare quelle di Vialli e Mancini griffate ERG o del Parma europeo con la scritta Parmalat, o della Cirio per il secondo scudetto laziale.
Fino a quelle attuali, con il connubio più longevo rappresentato dall’Inter e lo sponsor Pirelli, idillio che vedremo probabilmente per l’ultima stagione quest’anno.
Insomma, è inutile negare che oltre ai colori, la nostra memoria delle maglie del cuore è anche influenzato dalle scritte che non volevano lasciar mettere sulle maglie, ma che col tempo sono diventate un modo di scandire il tempo: nostro e della squadra che amiamo.