Diego Maradona ha deciso di regalarci l’ultimo colpo di classe proprio sui titoli di coda della sua vita.
Il suo cuore ha smesso di battere il 25 Novembre, non una data a caso. La stessa data di due uomini a lui affini e complementari, come George Best e Fidel Castro.
Uno è stato Diego ancor prima di Diego, sublime in campo quanto nemico di se stesso fuori. L’altro è stato quello che ha accudito e supportato Diego, la prima volta che il destino a provato a portarcelo via.
Diego, il capo
Guardatelo Diego Maradona. Guardatelo tutti. Non sembra fatto per giocare al calcio, o quantomeno non lo sembra assolutamente per i parametri odierni. Basso, tarchiato, spesso palesemente fuori forma. Eppure inafferrabile, imprendibile, impensabile.
Che fosse piccolino, con un fisico che non prometteva nulla di buon se ne accorsero da subito, quando le sue corse iniziarono da quella Villa Fiorito che gli diede i natali e doverono supportarlo economicamente per rinforzare quel corpo, all’epoca così esile e mal nutrito.
Come tanti in quella Argentina degli anni 60′ arrivava da una famiglia modesta, ai limiti dell’indigenza, una di quelle famiglie dove ci sono più figli che pezzi di pane da mettere a tavola.
A scoprirlo fu Don Francisco Cornejo. Scoprirlo poi. Non che ci fosse molto da scoprire: se la superiorità tecnica di Maradona era evidente tra i professionisti figuriamoci quanto fosse imbarazzante nei leggendari campi spelacchiati delle giovanili.
Troppo bravo quel ragazzo che, ancora in età da turbe giovanili, passa all’Argentinos Junior ed esordisce in serie A. Mezzo paese parla già di Maradona, in una nazione come l’Argentina che respira calcio ad ogni boccata.
Lo hanno visto in una trasmissione tv palleggiare in maniera angelica. Lo hanno visto in un altro servizio, dire che i suoi sogni sono esordire in Primera e giocare un mondiale.
L’Argentinos Junior diventa stretto quasi subito, quasi che l’epica di quella maglia non sia sufficiente a contenerne la classe. Ci vuole un passo ulteriore, un palcoscenico più grande.
In questo momento si capisce chi è – era – Maradona. Anzi Diego.
L’unica squadra argentina in grado di acquistarlo è il River, la squadra dei Millonarios, dei più ricchi. C’è solo un problema. Diego è del Boca, appartiene a quel 50%+1 come amano dire in Argentina.
L’Argentinos lo vende al River, ma Diego non ne vuole sapere. Implora letteralmente il Boca di comprarlo e gli Xeneises trovano in qualche maniera i 2 milioni di dollari che servono per fargli vestire la maglia numero 10. A dirla tutta non è nemmeno che li trovino, perché per pagare le rate all’Argentinos serviranno amichevoli a profusione per racimolare i soldi.
Ma Diego è felice, perché si trova nella condizione a lui più congeniale: essere il primo tra gli ultimi, quella sorta di capo popolo che si fa garante di una tifoseria.
Una condizione che lo accompagnerà per tutta la carriera, che ne farà un mito anche al di la delle capacità tecniche: Diego rende al massimo solo in situazioni difficili, quasi disperate.
Il successivo passaggio al Barcellona, anno di grazia 1982, naufraga probabilmente per questo. Catapultato in una squadra della grande borghesia calcistica spagnola, Diego non trova terreno fertile per mettere l’anima in campo.
Lo farà solo in grandi occasioni, talvolta anche mostrando il lato più oscuro del suo carattere, quello da guappo di periferia, come avviene nella finale di Copa del Rey dove accende una delle più clamorose risse della storia del calcio contro Andoni Goikoetxea e mezzo Athletic Bilbao.
C’è un nuovo sceriffo in serie A
È chiaro che per noi il Maradona più Maradona di tutti è quello che ha vestito la maglia del Napoli. Ora, andare a vedere il palmares e concentrarci su quello che Diego a vinto sotto il Vesuvio, è operazione stucchevole e inutile.
Non dice nulla della maestosità dell’impresa compiuta. Facciamo però un po’ di storia spicciola, quantomeno per inquadrare il contesto.
Maradona esordisce in serie A il 16 Settembre 1984: in quel momento nel campionato italiano giocano Platini alla Juve, Rummenigge all’Inter, Zico all’Udinese, Falcao alla Roma, Socrates alla Fiorentina. Solo per citarne alcuni eh. E quel campionato lo vincerà il Verona, per dire della competitività estrema di quel campionato.
In questo contesto Maradona arriva a Napoli non sapendo assolutamente nulla della squadra: sapeva solo che sarebbe venuto a giocare nel giardino dei migliori.
La squadra che ha attorno è abbastanza modesta e l’inizio è di quelli da brividi: marcato da Briegel all’esordio, sul campo del Verona futuro scudettato, Maradona la palla la vede poco. Al termine del girone d’andata il Napoli ha la miseria di 11 punti appena 2 in più dalla zona retrocessione.
Maradona torna in Argentina per le feste che quasi sprofonda nel pellicciotto dalla vergogna. Si domanda che mai glielo ha fatto fare.
Ma quando torna un fuoco l’assale, anche perché in tutti i campi in cui il Napoli è impegnato in trasferta volano insulti, cori pesanti, striscioni ai limiti della decenza. La possibilità di ergersi a difesa di quella gente, in una città con molte similitudini con Buenos Aires, lo esalta e lo proietta totalmente nella grande sfida, che sarà anche la più grande avventura della sua carriera.
La serie A vede iniziare l’egemonia maradoniana il 24 Febbraio del 1985: al San Paolo scende la Lazio, e Diego confeziona una tripletta irreale.
Un gol approfittando di un disimpegno allegro della difesa laziale, addomesticando il pallone librandosi a mezz’aria prima di spingere in rete.
Uno direttamente da calcio d’angolo sul primo palo, facendo fare ad Orsi (portiere laziale) la figura del tonno nella rete della porta.
Stessa figura fatta anche sull’altro gol, uno dei più iconici di Diego: su una palla morta a tre quarti campo che rimbalza sensuale, Diego si trasforma in compasso umano puntando la gamba destra a terra e colpendo con la sinistra, mandando il pallone a guardare il golfo sopra lo stadio, prima di scendere furioso verso la porta laziale.
Napoli è ai suoi piedi ma il viaggio è appena iniziato.
Tutti vogliono un pezzo di Maradona
Napoli per Diego è madre, moglie e amante. Napoli è casa e prigione. Tanto amore soffoca, ma come fai a non amare chi la domenica riscatta una settimana di angherie e soprusi?
Iniziano anche le prime soddisfazioni contro la Juve, come in quel giorno di novembre del 1985, dove Diego butta per aria secoli di studi sulla fisica applicata, mettendo in porta una punizione a due in area passando sopra una barriera posta ad appena 5 metri dal punto di battuta. Una cosa che la quasi totalità di noi non riuscirebbe a fare con le mani.
O come quando mortifica il Verona campione in carica guidando i suoi ad una storica cinquina, tra cui possiamo ammirare una perla da tre quarti campo quando accarezza la palla come avesse una racchetta da tennis al posto del sinistro e disegna un pallonnetto in volée di irridente bellezza, che tocca il palo prima di umiliare il suo futuro compagno di squadra Giuliani.
Scorrendo come un film le prodezze del periodo napoletano arriviamo fino al 10 Maggio 1987, quando sublima anni di lotte e gol con la conquista di uno scudetto che manda nella follia collettiva una città intera.
Maradona però a Napoli non può nemmeno muoversi: troppo l’amore che lo attanaglia, troppa la passione e le tentazioni: tutti vogliono un pezzo di Diego, ma fuori dal campo non c’è abbastanza Maradona per tutti.
Dopo il primo scudetto, un secondo posto velenoso nell’anno dell’epifania del Milan di Sacchi e la coppa Uefa dell’89, Diego dice basta. Non vuole un’altra sfida. Vuole solo vivere tranquillo.
Urla disperatamente un disagio che ancora non possiamo vedere e che non viene sentito perché soffocato dai boati che fa deflagrare a Fuorigrotta con le sue prodezze. Lui si è già accordato col Marsiglia di Tapie, Ferlaino gli da il via libera a patto di portare la prima coppa europea a Napoli.
Nella notte di Stoccarda, con la coppa in mano Diego è convinto che quella sia la sua ultima al Napoli: ricorda a Ferlaino la promessa fatta. Ferlaino nicchia. Diego in quel momento è come le banche d’affari nel 2008: too big to fail.
Nessuno vuole prendersi la responsabilità del distacco.
In epoche in cui lo svincolo dei calciatori era ancora distante, e Bosman non aveva ancora immaginato di portare il pallone in tribunale, Maradona viene costretto a rimanere a Napoli. Lo fa controvoglia. E nonostante lo faccia controvoglia arriva un secondo inaspettato scudetto, quello del 1990.
L’anno successivo i tempi sono maturi per il distacco, anche perché nel mezzo c’è stato il mondiale delle notte magiche, con Diego che tiene sotto ricatto un’intera città prima della semifinale tra Italia e Argentina giocata proprio a Napoli.
Ma il distacco arriva nel modo più bieco possibile: Maradona viene colpito nel suo punto più debole, quello della dipendenza dalla cocaina, prima nascosta e ora data al pubblico ludibrio da una società, il Napoli, che non sapeva come disfarsi del suo Totem, divenuto anche troppo grande.
Live is Life, Diego
In fin dei conti Maradona era solo un bambino. Un bambino che trovava pace e compimento solo in quei 90 metri d’erba, in quei 90 minuti di gioia.
La pressione, con un pallone tra i piedi non sa cosa sia. Se lo ricordano i tifosi del Bayern Monaco ad esempio. Riavvolgiamo un attimo il nastro.
Nella semifinale che precede la notte della Coppa Uefa di Stoccarda, Diego si scalda al centro dell’Olympiastadion di Monaco.
I suoi compagni sono tesi, sguardo basso alla ricerca della concentrazione, la posta in palio del resto è gigantesca. Come era solito fare per riscaldarsi anziché qualche scatto e un po’ di stretching, il nostro Pibe predilige l’arte della giocoleria applicata al pallone.
Dagli altoparlanti dello stadio parte “Live is Life” degli Opus. È tutto così dannatamente anni 80, che ci viene voglia di piangere.
Diego continua la sua routine pre partita: tacco, coscia, ginocchio, testa, spalla. La sfera non tocca terra, e non tocchiamo terra noi guardando quella leggerezza.
E non toccano terra nemmeno quelli del Bayern, intimoriti da una tale dimostrazione di tranquillità: molti di loro diranno, anni dopo, che quella qualificazione l’hanno persa li, mentre la voce di Herwig Rüdisser cantava questo effimero successo di una band austriaca di fine anni 80.
Era questo Diego?
Non solo ovviamente, ma la naturalezza con cui giocava era sconfortante per chi ci metteva tanto impegno nel gioco.
Eppure sia compagni che avversari si dicono fortunati di aver potuto vedere con i loro stessi occhi quello che faceva quel sinistro sul campo da pallone. Fosse in partita o nel riscaldamento prepartita.
Come quando era nella sua prima squadra – Le Cebollitas – e tra primo e secondo tempo delle partite di primera intratteneva il pubblico che finiva col cantare a gran voce “que-se-quede, que-se-quede” cioè “che rimanga”, per continuare ad ammirare tanta, troppa, maestria in un solo piccolo uomo.
Ancora 4 minuti Diego, por favor
Alla fine è giunto anche il momento dei saluti, come tutti i film, anche quelli più belli hanno per forza i loro titoli di coda.
Compito ingrato del vostro cronista, sarebbe quello di fare un riassunto, magari produrre un breve trailer, per spiegare a quel nessuno sparso nel mondo chi è stato, e cosa è stato, Diego Armando Maradona.
Per fortuna parliamo del più grande, che ha fatto della fatalità una regola, anche nel giorno della sua morte come detto in apertura.
E la fatalità vuole che Diego sia riuscito a condensare tutto se stesso in 4 minuti.
Quei 4 minuti che intercorrono tra il 51° e il 55° di Argentina-Inghilterra, quarti di Messico 86, giocata all’Azteca il 22 giugno.
Se vuoi spiegare ad un alieno chi era Diego Maradona mostragli quei 4 minuti. E se possiamo permetterci mettigli nelle cuffie “La mano de Dios” di Rodrigo Bueno.
C’è tutto Diego: il capo popolo contro i cattivi inglesi, all’epoca impegnati in una guerra contro l’Argentina per il controllo delle isole Falkland, Malvinas se le guardiamo dalla parte argentina.
C’è il lato più malvagio e beffardo del suo carattere, quello che lo fa barare contro l’avversario, anche in sfregio a quello che ama di più, cioè il calcio. Quel lato che ha portato la sua mano sopra la testa di Shilton, per segnare il gol più irregolare della storia dei mondiali.
C’è però anche il lato più mistico, quello del gol del secolo che arriva appena 4 minuti dopo.
Quello di un meraviglioso tango iniziato a centrocampo e terminato dopo 11 tocchi, con la palla in rete e una serie di inglesi a terra, come tanti di quei soldati argentini mai tornati dalla loro isola.
Quello immortalato da Vitor Hugo Morales nella sua cronaca, che ha per sempre scolpito nella nostra testa l’immagine del Barillete Cosmico, un Diego aquilone che vola in mezzo all’ingiustizia a vendicare i soprusi subiti da quel popolo di cui lui è capo assoluto.
Solo Diego, uomo semplice ma allo stesso tempo complesso come pochi, poteva avere la capacità di spiegarsi a tutto il mondo in maniera così chiara.
Con il linguaggio che parlava meglio e che tutti possiamo capire.
Quello del calcio.