C’è chi ha paventato l’ipotesi che Bruno Metsu si fosse fatto crescere la lunga e mossa bionda chioma solo per assomigliare ai suoi ragazzi selvaggi. O forse, più probabilmente, la sua estetica era come il riflesso sensibile di un mutamento ideale, quello che Metsu aveva iniziato qualche anno prima interfacciandosi col calcio africano. “Non avevamo bisogno di un poliziotto, ma di uno come noi”, ricorda con affetto Cissé (attuale CT senegalese): “avevamo bisogno, in altre parole, di uno che desse consigli, non ordini”.
Il cambiamento in Metsu è radicale nel passaggio dall’Europa (e il suo calcio) all’Africa: subito apprende il wolof, idioma parlato da milioni di persone con un’alta percentuale in Senegal, sposa una donna senegalese e si converte all’Islam – ciò che lo trasformò, da quelle parti almeno, in Abdul Karim.
Certo, se il ricco ornamento che stiamo ricordando non avesse incorniciato un quadro dal riscontro solido, l’uno e l’altro sarebbero presto finiti nell’oblio. Ma non è questo il caso del Senegal di Metsu, la squadra più nostalgica d’Africa dopo il Camerun d’Italia 90.
Il clamoroso esordio di quel Senegal
Proprio col Camerun, due anni prima del mondiale nippo-coreano, il Senegal si era trovato a contendere la finale di Coppa d’Africa. Il rigore decisivo, allora, lo aveva sbagliato Aliou Cissé. Che vent’anni dopo, da CT del Senegal, avrebbe vinto – ai rigori – la finale di Coppa d’Africa contro l’Egitto.
Non poteva essere altrimenti: già in quella nazionale allenata da Metsu, Cissé era un leader. Le parole sul proprio allenatore riportate sopra lo testimoniano ampiamente. Il cammino che Les Lions de la Teranga portarono avanti fino ai quarti di finale, lo certifica.
E pensare che tra i due allenatori protagonisti della sfida d’apertura del mondiale – Senegal vs Francia – Metsu doveva essere senz’altro quello più impreparato. Non solo perché il segreto di quel Senegal, più che tattica e studio, fu senz’altro ritmo ed entusiasmo, ma perché 21 dei 23 giocatori presenti in rosa nei Leoni della Teranga giocavano in Francia tra Ligue 1 e Ligue 2.
Il CT francese Roger Lemerre, che aveva sostituito Aimé Jacquet dopo Francia 98 conquistando la finale dell’Europeo 2000 contro gli Azzurri, vedeva a quella sfida con la superbia tipica del transalpino già vincitore. La Francia non perse solo quella sfida col Senegal (1-0), ma racimolò appena 1 punto nelle successive due partite (zero gol all’attivo), uscendo dal Mondiale ai gironi da campione in carica.
Quella sfida la decise un po’ la sorte – il palo di Trezeguet sullo 0-0 – un po’ il guizzo funambolico di un piccolo (e potenziale) fuoriclasse del gioco presente nell’undici senegalese: El Hadji Diouf, che seminò il panico nella difesa blues prima di servire in mezzo un gran pallone a Diop, abile nello sfruttare l’indecisione del duo Petit-Barthez.
Diouf fu grande protagonista di quella cavalcata mondiale che portò il Senegal fino ai quarti di finale – risultato raggiunto prima solo dal Camerun nel 1990 tra le nazionali africane. «Prima di giocare contro la Francia sono andato a dormire alle 4 di mattina – confessò Diouf. Non avevo sonno: cosa avrei dovuto fare?».
D’altra parte già il ritiro mondiale, prima in Corea e poi in Giappone, simboleggiava lo stato d’essere spensierato e scanzonato di quella nazionale: hotel aperto a tutto e tutti. Mogli, fidanzate, parenti dei calciatori, ma anche giornalisti e tifosi. Una visione diametralmente opposta a quella europea che tanto aveva disgustato – con le sue cifre etiche e geometriche – Bruno Metsu.
La stella di quel Senegal: El Hadji Diouf
Era festa continua, in casa Senegal. Quella squadra – la peggiore per ranking Fifa al 42° posto, peggio solo la Cina in quel mondiale – viveva un sogno giorno dopo giorno. E partita dopo partita.
Coi tifosi, che preparavano da mangiare, suonavano i tamburi e ballavano coi giocatori nell’hotel; con la stampa, che aveva preso quella squadra come un fiore nel deserto.
Era già un calcio iper-tecnico, iper-tattico, dove lo spazio per la genuinità delle emozioni e l’autenticità dei giocatori cominciava a venire meno. Quel Senegal quindi, e Djouf su tutti, era davvero l’unicum da raccontare a tutti i costi.
Che l’ala di Metsu avesse i mezzi per stupire, d’altra parte, lo si era già capito dalle magie in maglia Lens, dove aveva sfiorato lo scudetto perso all’ultima giornata col Lione. Ma il suo carattere era quello del leone indomabile, preda degli eccessi e noncurante delle conseguenze.
Dopo il mondiale, come a volersi screditare dinnanzi all’opinione pubblica dopo una rassegna da assoluto protagonista, se ne uscì con una frase delle sue: «Ero un teppista, ora sono un idolo».
In realtà la sua carriera vivrà una fase discendente dopo quel momento, con l’apice toccato al Liverpool (2002-2004), le attese deluse e poi riconquistate al Bolton (2004-2008), per poi deludere di nuovo e uscire di scena nel 2015 al Sabah (in Mali). «Rassegnatevi: dovete prendermi come sono. E giudicarmi soltanto per quel che combino in campo». E poi ancora: «Sì, è vero, non sempre seguo le regole dell’Islam. Ma sono giovane e prego molto: so che il buon Dio mi perdonerà», aveva detto ai tifosi durante il Mondiale del 2002.
L’altra stella: Camara
Grazie ai suoi colpi e a quelli di Camara, il Senegal rimarrà per sempre nella storia di questo sport. Di Diouf qualcosa si è detto, ma chi era Camara?
Camara non aveva il talento di Diouf, ma aveva quello che a Diouf mancava: la testa. Mestierante al Sedan (in Francia), dopo esser cresciuto tra Svizzera e Francia, appunto, a livello calcistico, Camara quel mondiale neanche voleva giocarlo.
I fischi dopo la finale persa nel 2000 contro il Camerun gli avevano fatto troppo male. Fu la madre a convincerlo di accettare la convocazione di Metsu (“occasioni così, figlio mio, non ricapitano“).
Con i due gol segnati alla Svezia negli ottavi di finale, Camara divenne un eroe nazionale, al pari di Amy Mbackè Thiam, prima donna senegalese medaglia d’oro a un Mondiale di atletica leggera (400 m), o come Lamine Diack, presidente della Federazione Internazionale di Atletica Leggera: “I nostri giocatori sono forza e agilità, perché tutta la nostra vita è stare in equilibrio tra deserto e foresta”.
Era il Senegal di Bruno Metsu
Lo sapeva bene, Bruno Metsu.
Lui, cresciuto in un anfratto belga come Codekerque-Village, nei pressi di Dunkerque, era cresciuto a metà del guado: tra provincia e città.
Metsu è scomparso all’età di 59 anni per un tumore maligno. Il suo corpo riposa a Yoff, nella parte nord di Dakar capitale senegalese.
Il suo spirito riposa invece nella mente di tutti noi, ammaliati da una squadra capace di vincere coi campioni del mondo in carica, pareggiare con la Danimarca e l’Uruguay (dopo essere stata avanti 3-0), battere la Svezia e perdere unicamente contro la Turchia col golden gol di Ilhan Mansiz.
Nessuna squadra africana ha mai raggiunto un simile risultato da allora ad oggi, ad esclusione del Ghana 2010, nonostante tutti gli sforzi fatti e i progetti ideati – e mai portati a termine.
Ma ancora dimora nella memoria, la grandezza dei Leoni della Teranga.