L’avvento di Internet ha moltiplicato e migliorato la tecnologia e ciò che consente, in vari ambiti. Però ciò non coincide in alcun modo con una più facile ricerca della verità, proprio perché l’idiozia è anch’essa tra le beneficiarie della moltiplicazione. Nel calcio di oggi abbiamo una delle manifestazioni di idiozia più fastidiose: lo screenshot.
Ovviamente non mi riferisco allo strumento in sé, ma alla pretesa di verità che ne accompagna l’utilizzo, ignorandone la connaturata illusorietà. Oggi cercherò di spiegare perché gli screenshot sono tossici, non solo nel calcio naturalmente, ma le dinamiche della sua tossicità sono universali. Per farlo mi avvarrò anche di uno dei capolavori del cinema italiano, anche se non certo tra i film più famosi e – anzi – oggi è quasi dimenticato. Parlo di “Blow-Up”, di Michelangelo Antonioni.
Blow-Up e la lezione di Antonioni su fotografia e realtà
Questa pellicola, girata nel 1966 e ambientata nella swinging London, vede il fotografo di moda Thomas (David Hemmings) protagonista suo malgrado di un mistero originato dallo zoom di una foto scattata casualmente in un parco. Da questa foto, Thomas nota la presenza sullo sfondo di una coppia di amanti, ma non solo. Con successivi ingrandimenti (che in inglese vengono definiti appunto “blow-up”), Thomas scopre quello che sembrerebbe essere il cadavere di un uomo ai piedi di una siepe. Tornato al parco nottetempo, nota effettivamente il cadavere di un uomo ma, al suo ritorno in studio, scopre che qualcuno è penetrato in casa sua, probabilmente la donna (Vanessa Redgrave) che era con l’uomo prima che questi venisse ucciso. Insieme alle foto sparisce poi anche il cadavere, ma il film non sbroglia il mistero. Come spesso accade nel cinema di Antonioni, se ne disinteressa totalmente. Lo scopo del regista era quello di dimostrare che la realtà è irriproducibile, se non in maniera del tutto simbolica: con la fotografia.
In una intervista successiva, il regista ferrarese dirà a riguardo: “Il mio problema per Blow-Up era quello di ricreare la realtà in una forma astratta. Io volevo mettere in discussione “il reale presente”: questo è un punto essenziale dell’aspetto visivo del film”. Nella sua idea, quel “reale presente” era appunto la fotografia, ovvero il tentativo di riprodurre la realtà in forma astratta. Tentativo destinato a fallire, come dimostra la sequenza in cui ogni progressivo ingrandimento della foto diventa sempre più qualcosa di diverso da ciò che ha provato a riprodurre. Alla fine di questo interminabile zoom in avanti, la grana della pellicola è talmente grossa da avere ormai dato vita a una sorta di quadro astratto, in cui la realtà è diventata nel frattempo tutt’altra cosa, sfuggente e indefinibile.
Gli screenshot nel calcio e la realtà che non esiste
Dopo questa digressione cinematografica, torniamo al calcio contemporaneo e alle sue paturnie. Rispetto alla fotografia degli anni ’60, oggi non c’è più la grana della pellicola, non ci sono i rullini né la camera oscura. Ci sono i pixel e la ultra-high definition, per i professionisti. Ma anche per tutti i comuni mortali, ci sono i computer, i device mobili e gli screenshot. Che, però, hanno un peccato originale molto simile a quello che voleva sottolineare Antonioni in “Blow-Up”.
O meglio, la tecnologia ha migliorato la riproduzione della realtà e anche di molto, ma lasciandola inevitabilmente imperfetta, incompleta. Alle immagini catturate (come sono, tecnicamente, gli screenshot) mancano due requisiti fondamentali: la profondità e il movimento. L’ultimo tormentone è il possibile fallo di Bisseck su Strootman, circolata negli ultimi giorni soprattutto da parte del mondo juventino (o meglio, non interista).
Senza addentrarci su un fallo che probabilmente c’era e dunque avrebbe potuto/dovuto comportare un annullamento della rete dei nerazzurri, c’è la totale inutilità di tutti gli screen che circolano. Cosa mostrano? Mostrano le braccia del giovane difensore dell’Inter protese verso la schiena del centrocampista del Genoa, insieme a un indecifrabile contatto tra le mani dello stesso Strootman. Dimostrano l’esistenza del fallo? No. In questo caso, ci sarebbero le immagini in movimento dei vari replay, che paiono sì palesare un fallo di Bisseck. Ma gli ufficiali del VAR hanno deciso diversamente e questo, giusto o sbagliato che sia, va accettato.
La storia malsana degli screenshot nel calcio è però piuttosto lunga, e più passa il tempo più veniamo invasi da screen che dimostrano questa o quell’altra cosa. Solo quest’anno, abbiamo avuto la palla fuori-palla dentro di McKennie prima del gol della Juventus alla Lazio, il possibile contatto da rigore di Acerbi su Osimhen, l’ipotetico tocco di braccio di Weah in Juventus-Verona e altri ancora. Sempre in un match tra Verona e Juventus dell’anno scorso si era avuto il celebre screen della “parata” di Danilo, ma in tutti questi casi manca una componente fondamentale: la profondità. Anche se le immagini originali sono in ultra-high definition, i fermo-immagine non possono compensare la mancanza di profondità, ovvero schiacciano l’immagine e le distanze tra i corpi dei giocatori, come tra i corpi e la palla.
Chiellini, il re dei meme
Ma il re degli screenshot inutili, se così si può dire, è ormai datato. Parlo del famoso frame in cui si vede la testa di Edinson Cavani piegata leggermente verso l’alto e la mano destra di Giorgio Chiellini che afferra furtivamente la folta chioma del bomber uruguagio. Alcuni geni del disagio l’hanno ritirata fuori nel giorno in cui il decano dei difensori italiani ha annunciato il ritiro dal calcio giocato, come a dimostrare scorrettezza, antisportività e quant’altro. Non ho la prova, ma scommetterei tutti i denti del giudizio che la quasi totalità di questi sedicenti indignati abbiano esultato come se non ci fosse un domani la sera dell’11 luglio 2021, nel momento in cui Chiellini butta giù Bukayo Saka a pochi minuti dal fischio finale di Italia-Inghilterra. L’attaccante dell’Arsenal si sarebbe lanciato verso la porta, l’intervento di Chiello glielo ha impedito, prendendosi un sacrosanto cartellino giallo. E poi sappiamo tutti come è andata a finire.
La verità è che non era antisportività o scorrettezza, ma solo quello che si suole definire come “mestiere”, una qualità non scritta che comunque deve giocare sul filo di cosa è consentito e cosa non lo è, avendo sempre come riferimento il regolamento e le sue prescrizioni. Così come non è bello che i calciatori si strattonino e si tirino i capelli, ma è prassi che ciò avvenga. L’unica differenza del calcio attuale rispetto a quello di X anni fa, è che oggi ci sono decine di telecamere ad alta definizione, dunque ogni singolo gesto può venire colto. Ma un conto è se ciò avviene per farne un meme da ridere, un altro se lo si usa per pretendere di arrivare a una verità che non esiste.
Perché non esiste? Perché quell’istante manca del dinamismo, del movimento, di un prima e un dopo che c’erano e niente può cancellarli, ma niente può adeguatamente riprodurli. Pretendere di far derivare la realtà da un frame è presuntuoso, come è generalmente l’uomo quando pretende di dominare la natura o altre forze che non possono essere controllate.
Tra faziosità e sospensione dell’incredulità
Chiudo tornando sull’ipotetico fallo di Bisseck, ma anche sulla palla dentro-palla fuori di McKennie e altri casi simili, compresi i fuorigioco. In questi casi, le persone incaricate del VAR hanno a disposizione varie inquadrature, e immagini che consentono di pervenire al frame corretto con un margine di errore minimo. Minimo, seppure non inesistente. Nonostante il progresso tecnologico, l’errore umano non è cancellabile, anche se molto si potrebbe ancora fare nella determinazione dei protocolli. Rimane un punto di fondo: agitare complotti solo quando siamo noi i danneggiati non è onesto, è solo stupido. Se riteniamo che nel mondo del calcio sia tutto già deciso a tavolino abbiamo uno strumento: non guardarlo più. Altrimenti serve un elemento indispensabile per il cinema, ma che a ben vedere è indispensabile anche quando si ha a che fare con istituzioni per loro natura fallaci: attuare la sospensione dell’incredulità.