Udine, prima come città e portato culturale, poi come squadra di calcio, è da sempre aperta al multiculturalismo. I Pozzo, che di Udine sono figli e insieme padri, hanno non solo ereditato questa caratteristica: l’hanno tirata fino a raggiungerne le estreme conseguenze. Parliamo evidentemente della bizzarra ma sintomatica faccenda dei passaporti di inizio 2000.
L’Udinese quell’anno si giocava l’Intertoto – altro simbolo precipuamente forestiero – e quindi la possibilità di ampliare i propri orizzonti europei: il 3-4-3 di Zaccheroni era stato ereditato da De Canio, che era passato ad un più prudente 3-4-1-2. Intanto, però, il fil rouge dei due progetti tecnici rimaneva intatto: la numerosissima presenza di stranieri all’interno della rosa.
In attacco l’argentino Roberto Pampa Sosa (6 gol in Intertoto quell’anno) e Massimo Margiotta, italo-venezuelano. Sull’esterno Warley Silva dos Santos, brasiliano. In mezzo al campo Martin Jorgensen e il belga Johan Walem. A tutta fascia, l’argentino Cristian Diaz e un altro brasiliano, a destra, come Alberto Valentim do Carmo Neto. Per tutti, ambiguamente, Alberto. Quell’Udinese è davvero multietnica: argentini, belgi, danesi, brasiliani, ghanesi (Gargo), spagnoli (Helguera), olandesi (van der Vegt), cileni (Gutierrez e Pizarro), paraguaiani (Da Silva).
Il doganiere polacco che fece tremare il calcio italiano
Quello che conta, comunque, per essere tesserati non è tanto il luogo d’origine ma il passaporto. La ricerca archivistica e genealogica, in quegli anni così ribollenti, è spasmodica e costituisce una delle attività insieme ombrose e cardine delle società di calcio.
Di dov’era il nonno di quello con la 7? L’attaccante con la 9 ha mamma italiana? E la nonna? «Mai saputo nulla, se ne sono occupati sempre a Buenos Aires», dice l’entourage di Veron dopo i dubbi della Procura di Roma sul ‘trisavolo di nome Portella di Fagnano Castello, in provincia di Cosenza’.
Neanche Gigi De Canio sa nulla quando alla vigilia del primo turno di Coppa UEFA 00/01 l’Udinese sta aspettando in albergo di passare qualche ora prima di affrontare il Polonia Varsavia. Poi però si accorge che manca Warley.
Dov’è Warley? De Canio ride dichiarando ai giornalisti presenti di esser sollevato: il brasiliano era in ballottaggio con Esposito. Ma la situazione è tutt’altro che comica. Il colonnello Wlodzimierz Warchol, ufficiale della guardia di frontiera, non ha lasciato passare Warley ai controlli perché quel documento, un passaporto portoghese, è falso. Nello specifico, è stato emesso nel 1991 a una persona che non era l’attaccante da un funzionario portoghese che, fatte le prime ricerche, non esiste.
Scoppia il caso. E mentre Warley è costretto allo stato di fermo, il dg dell’Udinese Marino dichiara: «Tutto un equivoco, si risolverà in fretta», ma suda freddo anch’egli, solitamente calmissimo. Come fosse la tessera di un domino, poi, la notizia relativa a Warley coinvolge a catena altri passaporti sospetti.
Warley e Alberto, andata e ritorno immediato
Il primo ad essere colpito dall’epidemia è Alberto, l’altro brasiliano. Solo che quest’ultimo stava sul pullman diretto a Varsavia, e così tutta la squadra è costretta a tornare in aeroporto. I due verdeoro passeranno la peggiore giornata della loro vita, costretti alla clausura in dogana per una notte e timorosi di passare in carcere i futuri cinque anni – così prevedeva la legge polacca per casi di questo tipo.
Sono le 22 passate quando interviene Luca Lepore, primo segretario all’ambasciata italiana con delega di funzione consolare. I due calciatori possono partire in direzione di Varsavia, ma il loro destino è ancora oscuro. Secondo una testimonianza del CorSera, ingenuamente i due avrebbero confessato l’esistenza dei falsi passaporti per aggirare la regola sportiva e i funzionari polacchi, accertata la veridicità di quelli brasiliani, avrebbero poi accettato di farli passare – ma con una clausola: decreto di espulsione per cinque anni dalla Polonia al viaggio di ritorno direzione Udine.
Warley, in quella partita, metterà la zampata per portare con sé, e al compagno Alberto, la gioia in una notte dolorosa e difficile: «Firma il successo liberandosi per una sera dall’ incubo della patacca che qualcuno gli ha spacciato per passaporto. Se attraversa indenne i suoi incubi, può diventare l’Amoroso del futuro», si legge sui giornali il giorno dopo.
Ma lui non ha dimenticato: «Sono sconcertato e contento, ho vissuto delle ore bruttissime, con una sensazione mai provata prima – dirà nel dopo-gara. Mi sono sentito male e ho pianto. Mia madre e mio padre mi hanno dato un’educazione, ho vissuto nel rispetto delle regole, non ho mai lontanamente pensato di trovarmi nei panni del colpevole».
E aggiunge: «Non ho più il passaporto comunitario, meglio così. Mamma mia, non voglio più ripetere un’esperienza del genere. Io adesso sono brasiliano e basta. Mi sento usato, preso in giro: è naturale. Non so se cambierò i manager. Voglio stare due o tre giorni tranquillo, a pensare. Poi vedremo».
Lo scandalo si allarga, ma senza penalizzazioni
Ah, i manager. Prolungamento diabolico, quasi demoniaco, delle figure procuratoriali. Nel caso di Warley è quel Juan Figer vecchio marpione del calcio sudamericano. Ma è davvero sua la colpa del misfatto? Tornati in Italia, i due calciatori svaniscono nel nulla. Warley va al Gremio tra l’imbarazzo generale, Alberto riprende l’aereo direzione Brasile per mettere il visto al suo passaporto portoghese.
La giustizia sportiva farà il resto.
Saltano fuori altri due passaporti falsi, quelli del paraguaiano Da Silva e di Jorginho, giovane brasiliano. Lo scandalo si allarga alla Samp (Job, Ondoa, Zé), Inter (Recoba), Roma (Bartelt, Fabio Junior), Milan (Dida) e Lazio (Veron).
Il Passaportopoli costerà in totale ai club 7 miliardi (3 all’Udinese per responsabilità diretta, 2 a Inter e Lazio).
Perché però i club non ricevettero penalizzazioni in classifica? Perché c’era un precedente: il caso Nakata dell’anno prima – quando venne deciso che una squadra poteva schierare in campo tutti e cinque gli extracomunitari della propria rosa: una regola subentrata in corso, tra l’altro a due giorni da quel Juve Roma 2-2 con gol di Nakata decisivo per lo Scudetto.
Coincidenze astrali e meraviglie del sistema: il calcio fa sempre da apripista, nel bene e nel male.