Mancini è stato un ragazzo d’oro. E la Sampdoria è stata la sua cassaforte. Del resto, un diamante così luccicante non poteva passare inosservato davanti allo sguardo severo e paterno di Paolo Mantovani, per sempre un papà di Roby.
Nato a Jesi, poi genovese dopo il primo passaggio al Bologna: ha vestito la maglia della Sampdoria prima di quella dei felsinei, poi Lazio e Leicester.
Ma nessuna gli calzava così bene come quella blucerchiata.
Nell’estate del 1982, proprio Mantovani l’aveva puntato e aveva deciso di farne il perno della sua squadra. 4 miliardi di lire: una cifra pesante, importante, segno che l’investimento era delicato e avrebbe avuto proprio i segni del termine utilizzato. Cioè, avrebbe dovuto dare un futuro. Ma c’era qualcosa di diverso, in Mancini. C’era quel tocco di palla dei campioni e allo stesso tempo una consapevolezza devastante nei propri mezzi.
Era sfacciato e fortissimo: Mantovani l’aveva preso perché gli ricordava il suo carisma, oltre ai piedi buoni.
L’esperienza più forte della sua vita
Arrivato alla Samp, naturalmente fu il pupillo del presidente. Mancini non solo infila gol, assist, giocate pazzesche, ma segna completamente la storia del Doria. Basti pensare che da quando arriva a Genova – Ottantadue – all’anno in cui va via (Novantasette), passano quattro Mondiali e quattro Europei, passa una vita intera e passano tantissime vittorie. La prima, in Coppa Italia, il 1° settembre del 1982: al minuto 63 di Samp-Brescia, dopo essere subentrato a Paolo Rosi, fece il suo esordio in maglia blucerchiata. In campionato, la prima fu un 1-0 spettacolare contro la Juventus.
L’altra metà della mela fu certamente il rapporto con Luca Vialli: potenza e classe, i due formarono una coppia semplicemente impossibile da fermare.
Entrambi facevano gol, entrambi erano trascinatori, entrambi si completavano e mai pestavano i piedi. Il primo trofeo ufficiale di Mancini e della Samp fu proprio la Coppa Italia, ed era il 1985: doppia vittoria nella finale contro il Milan, sotto la guida di un maestro come Boskov, giunto in Liguria proprio nell’estate del 1986. Non fu l’unico trionfo: poco dopo arrivò quello enorme, pazzesco, insperato. E targato assolutamente Roberto Mancini.
Lo scudetto del 1990-1991 meriterebbe – e ha meritato – libri e racconti a parte, per il significato intrinseco di quella che fu una vera e propria impresa. Ma la realtà dei fatti è che quella Sampdoria non fu un miracolo in una Serie A tempestata: fu una squadra venuta su in maniera quasi scientifica, fu un gruppo talmente solido da poter affrontare senza patemi le super potenze italiane degli anni Ottanta. Fu tutto e il contrario del resto.
E fu la squadra che vinse – oltre allo scudetto del Novantuno – due coppe Italia (1987-1988, 1988-1989), aggiungendo una Supercoppa conquistata nel 1991 ai danni della Roma. Chi segnò? Proprio Bobby-goal.
L’ultimo Mancini
Da ragazzo a capitano, da capitano a campione d’Italia.
Il ciclo Mancini sembrava inesauribile: ogni volta che andava verso la fine, si rialzava e paradossalmente sembrava acquisire ulteriore forza. Anche con l’arrivo di Eriksson sulla panchina blucerchiata la situazione non cambiò: arrivò la quarta Coppa Italia, anno 1994.
Eh, in tutto questo c’era anche da calcolare il percorso europeo. E allora, ecco la finale in Coppa delle Coppe del 1989, con la sconfitta con il Barcellona oggi sporca quei ricordi. Non fu un grande Mancini, non come nel 1990, quando una doppietta di Vialli consumò la risposta sull’Anderlecht.
Nella stagione 1991-1992, il Mancio arrivò addirittura alla terza finale europea in quattro anni. Leggermente diversa, e per leggermente intendiamo in realtà “profondamente”.
In palio c’era tutto, c’era la Coppa dei Campioni, e il sogno di una città che era il sogno di tutt’Italia: vedere la Samp dei miracoli fare il miracolo più grande. In finale, ancora il Barcellona. Per una partita tesa, sporca, brutta, cattiva, eppure colma di tecnica e consapevolezze.
Alla fine, vinsero i blaugrana: la storia sicuramente la conoscerete, ma il dolore di Roby no, fu tutto privato, e ancora oggi ha una cicatrice invisibile a ricordarglielo. La punizione di Koeman l’avrà rivista mille volte, ogni volta una pugnalata.
Nel 1997, la separazione, la partita del 1° giugno sotto una pioggia scrosciante. I motivi del divorzio si seppero solo in avanti: c’era la voglia di cambiare aria e di seguire Eriksson alla Lazio, certo, ma allo stesso tempo una necessità di separarsi dettata da fattori esterni.
Mancini non si sentiva più al centro del progetto. “I motivi non li dico, non voglio fare polemiche. Qui sono stato bene, la Sampdoria per me rappresenterà sempre qualcosa d’indimenticabile. Forse ho vinto meno di quanto era possibile, ma l’ more vale più dei successi. Ho dato tanto, ma ho avuto in cambio ancora di più“, il suo commiato.
Le sue cifre sampdoriane sono impressionanti, 423 presenze in campionato con 133 gol, nessuno ha indossato la maglia blucerchiata e segnato quanto lui.