Tra Roberto Mancini e la Nazionale di calcio sta sbocciando adesso l’amore, con 35 anni di ritardo in pratica.
Il nuovo corso manciniano della nostra selezione azzurra sta facendo intravedere cose eccellenti e si respira un’aria di freschezza che da tempo non pervadeva l’atmosfera di Coverciano.
Eppure tra Mancini e la Nazionale di calcio non sempre è corso buon sangue, anzi il calciatore Roberto Mancini è probabilmente uno dei più grossi rimpianti della storia della maglia azzurra.
Facciamo un po’ di ripasso di storia, a beneficio dei più giovani che magari non conoscono il Mancini calciatore e la sua tormentata storia azzurra.
Roberto Mancini era il 10 per eccellenza
Ripasso di storia s’è detto, e quindi iniziamo dal principio, cioè spiegando di cosa parliamo quando ci avviciniamo all’argomento del Mancini calciatore.
All’inizio degli anni 80′ Roberto Mancini è una sorta di baby prodigio, il prospetto più interessante e luminoso del calcio italiano. Gioca nel Bologna, che lo preleva (battendo sul tempo il Milan) dalla Jesina quando Roberto ha ancora l’età da scuole medie.
La maglia rossoblù accudisce e coccola questo progetto di giovane campione, facendone poi il fulcro di tutte le formazioni giovanili: ma il talento è troppo evidente per rimanere confinato nei campionati dei ragazzi, dove la superiorità tecnica di Mancini è lampante.
Ecco allora che avviene l’esordio in prima squadra nel 1981, quando Roberto non ha ancora compiuto 17 anni. Attenzione non si tratta di un esordio per fare qualche spezzone di partita tra i grandi: in quella disgraziata stagione 81/82, che porterà alla prima storica retrocessione felsinea in serie B, Mancini gioca da titolare tutto il campionato ed è l’unica nota lieta di un’annata disastrosa.
30 partite e 9 gol al primo anno di A, da non ancora maggiorenne: qualcuno parla già di nazionale in vista dei mondiali spagnoli, ma la concorrenza è alta e si sa che Bearzot, detto «il vecìo», ama l’esperienza anche – e soprattutto – su un campo di pallone.
Direttore sportivo di quel Bologna è Paolo Borea, che verrà poi chiamato da Mantovani per costruire il ciclo Sampdoriano più bello di sempre: il primo mattone da mettere per edificare la casa doriana è proprio Roberto Mancini che passa a Genova nell’estate Mundìal.
Ora, spiegare in poche righe cosa sia stato Roberto Mancini per la Sampdoria è davvero impossibile. Basti pensare che parliamo del recordman di presenze in blucerchiato, autore di 173 gol tra il 1982 e 1997. Un giocatore speciale, un giocatore che possiamo tranquillamente far sedere alla tavola dei Rivera, dei Baggio, dei Del Piero e dei Totti per peso specifico e classe.
Uno dei pochi a vincere in carriera due scudetti senza mai aver giocato con nessuna delle 3 grandi (Inter, Milan e Juve) aggiungendo all’apogeo doriano del 1991 il clamoroso (per come è arrivato) scudetto laziale del 2000.
Geniale con la palla al piede, è senza dubbio il miglior assist man che l’Italia abbia mai prodotto: ha fatto la fortuna di decine di attaccanti lungo un ventennio di serie A. Gli devono molto Chiesa e Montella diventati grandi grazie alle imbeccate del Mancio e ovviamente gli deve molto anche Gianluca Vialli, con cui Mancini ha formato la coppia dei Gemelli del Gol.
Ma a cotanta grazia tra i piedi fa da contraltare un carattere polemico, una lingua tagliente che solo pochi allenatori in carriera sono stati in grado di arginare: sicuramente Boskov, un padre e non solo calcistico per Mancini, ed anche Eriksson che l’ha preso sotto la sua ala anche all’inizio della carriera da allenatore.
E proprio questa inclinazione è probabilmente il motivo del cattivo rapporto con la maglia azzurra.
Giovane e ribelle
Quando Mancini lanciò un imberbe Balotelli nel 2008 con la maglia dell’Inter, molti sostenevano che fosse la figura giusta per guidare quell’immenso talento, dato che lo stesso mister fu nella sua epoca una testa piuttosto calda.
Il peccato originale in questo senso è datato 1984: Mancini risponde per la prima volta alla convocazione della Nazionale maggiore ancora guidata da Bearzot, impegnata in una tournée in nord America. Il giovane Mancini arriva da un paio d’anni di Under 21 sotto la guida di Azeglio Vicini, che racconta meraviglie di questo ragazzo, che quindi viene aggregato alla nazionale all’epoca campione del mondo.
Esordisce con la maglia azzurra a Toronto il 26 Maggio del 1984 subentrando a Giordano, ma poi accade il fattaccio: durante il soggiorno a New York prima di una partita, esce una sera con qualche compagno attratto dal fascino della Grande Mela. Una serata al famoso Studio 54, locale frequentato da vip e stelle varie, si conclude alle prime luci dell’alba, quando Mancio rientra in albergo con il compagno Tardelli.
Bearzot è furioso col giovane, di cui sentiva anche la responsabilità nel soggiorno nordamericano, e lo esclude dal resto della tournée e dalle successive convocazioni: questa intemperanza costa proprio la nazionale a Mancini, che salterà anche i mondiali messicani del 1986 ai quali avrebbe senz’altro partecipato assieme al gemello Vialli.
Nel frattempo però è ancora in età da Under 21 e Vicini ne fa il leader tecnico di una nidiata di campioni che sarà poi quella su cui si fonderà la Nazionale destinata ad Italia 90.
Con l’avvento alla maggiore del suo mister di Under 21 Mancini ritrova l’azzurro e si appresta a vivere da protagonista il suo primo grande evento, l’Europeo in Germania del 1988.
La proverbiale lingua tagliente del Mancio però ci mette lo zampino anche stavolta: nel finale di campionato alcune dichiarazioni caustiche verso la classe arbitrale accende il dibattito sulla convocazione del Mancio per l’Europeo, reo secondo la stampa di non aderire al codice di comportamento che la Nazionale impone.
Vicini lo difende, lo porta in Germania e lo schiera titolare proprio contro i tedeschi nella gara inaugurale: rimane quello il punto più alto della carriera azzurra del Mancio, che segnerà il gol del vantaggio azzurro salvo poi lasciarsi andare ad un’esultanza estremamente polemica verso la sala stampa del Rheinstadion di Dusseldorf.
Mancini e la Nazionale: i motivi di un amore mai sbocciato in campo
Certo tutte queste intemperanze non hanno agevolato la carriera azzurra di Mancini. Vicini conosce bene il talento del doriano, e lo inserisce nella lista dei convocati per il mondiali di casa, dove però Mancio non vedrà il campo neanche per un minuto.
Il passaggio a Sacchi, con il suo modo schematico e molto codificato di giocare non ha fatto che peggiorare la situazione.
Mancini ha sofferto la concorrenza e un ruolo tutto particolare, che alla Sampdoria poteva sostenere, ma che in Nazionale non era percorribile: troppo attaccante per superare Giannini nelle gerarchie del centrocampo, troppo centrocampista per essere preferito a Baggio davanti.
Roberto Mancini era un giocatore che non aveva ruolo, doveva essere lasciato libero di andare per il campo dove l’istinto lo guidava. Bisognava costruirgli una squadra attorno, tecnicamente come accaduto alla Samp oppure moralmente come nella Lazio in cui Eriksson l’aveva portato per farne il leader carismatico di un gruppo di campioni che andava istruito alla vittoria.
La maglia azzurra è troppo pesante per legarsi mani e piedi ai destini di un solo giocatore, per quanto talentuoso sia: non è successo con Baggio, protagonista di continui distacchi e ritorni; non lo è stato con Rivera mai realmente insignito di ruolo da leader assoluto; e non poteva esserlo con Mancini.
Un peccato sicuramente, perché per via di queste incomprensioni caratteriali e tattiche l’Italia ha perso uno dei 5 talenti più cristallini della sua storia pallonara.
Ora, con 35 anni di ritardo, l’amore che non ci fu quando indossava gli scarpini da calciatore, Mancini prova a riconquistarselo con i galloni da CT. L’andamento è incoraggiante e speriamo che quello che poteva essere a suo tempo, possa diventare realtà oggi, anche se da un’angolazione prospettica leggermente diversa.