Come una cotta che si scotta, la Juventus è tornata sui propri passi. E come chi sa bene quanto conti guardarsi indietro, ha colto probabilmente il miglior fiore sul prato degli allenatori a disposizione, tornando alla schiettezza e al pragmatismo di Massimiliano Allegri. L’ha fatto dopo aver atteso (chissà se invano) che sbocciasse Andrea Pirlo, dopo aver aspettato un anno prima che a sbocciare fosse la Juve intera sotto la guida di Maurizio Sarri. Con l’ex Napoli ci sono stati problemi di gruppo e non di risultati; con l’ex regista ci sono stati problemi di risultati e non di gruppo.
Chi riusciva a coniugare queste due anime così diverse eppure così importanti e ‘integranti’? Proprio lui. Proprio Max. Due stagioni inchiodato sul divano, un altro ‘no’ apparente a Inter e Real Madrid, i cancelli della Continassa che si spalancano nuovamente alle sue idee. Stavolta avrà una missione ben diversa: non gestire e amalgamare un gruppo di giocatori pronti a vincere, ma far crescere giovani e piazzare il blitz scudetto. Se avrà o meno il lusso Ronaldo, lo scopriremo solo mercato facendo.
Non è una prima volta
Tornare indietro sarà sempre più sicuro dell’andare avanti. È insito nell’animo umano, e dopo due avventure brevi e troppo intense, c’era quasi un bisogno fisiologico di riportare tutto alla ‘halma‘ che predicava Allegri. Un gruppo sballottolato da un progetto all’altro, che però ha ben accettato il percorso a ritroso a cui il presidente Agnelli ha fatto ricorso per mettere insieme i vecchi cocci con quelli nuovi. E no, non è un’idea totalmente originale: neanche alla Juve, dove fare un passo indietro equivale ad ammettere un errore, e prima di ammettere un errore c’è bisogno di un vero e proprio fallimento.
Ecco: anche per questo, il percorso di Pirlo ha stimmate simili a quello di Carlo Ancelotti. Chiamato a rivoluzionare lo spirito conservatore dei bianconeri, il tecnico di Reggiolo aveva collezionato secondi posti e la delusione torrenziale – come la pioggia – di Perugia. Ancor prima di avvertire la disaffezione di fondo, naturale dopo un trauma, Moggi e Giraudo optarono per un nome scalda-pubblico come Marcello Lippi. Ora: da considerare che il viareggino aveva segnato già un’era a Torino, dal 1994. Un’era fatta di vittorie, persino europee, salvo chiudere dopo dimissioni dolorosissime nel febbraio del Novantanove. Da lì il passaggio all’Inter (disastroso), quindi il rientro a casa nel 2011. Due anni che sembrano una vita: chi vi ricorda?
Di quella rivoluzione illuminata siglata Ancelotti, oggi si ricordano due, tre racconti sparsi: il primo è naturalmente la delusione per una squadra comunque forte e allo stesso tempo troppo fragile; il secondo è il rapporto mai caldissimo tra Ancelotti e la tifoseria bianconera. Il terzo? Proprio il ritorno del Paul Newman toscano. Che al primo anno portò a casa uno scudetto, che al secondo anno replicò e che al terzo anno chiuse comunque in Champions. La ciliegina sarebbe stata la finale di Champions di Manchester, proprio contro il Milan di Carletto: ma alle rivincite del destino, il calcio non sa resistere.
Il Trap e non solo
Torino e poi Milano. Prima di Lippi, ci era riuscito Giovanni Trapattoni. Un simbolo del Milan che trova la fiducia incondizionata della Juventus, in grado di trattenerlo in bianconero per ben 10 anni. Il palmarés? Meraviglioso: sei scudetti, e la Coppa Campioni nella tragedia incredibile dell’Heysel. Quando lasciò i bianconeri aveva appena 47 anni: troppo giovane per non immaginare un’altra traiettoria di carriera e di vita. Per questo scelse l’Inter, per questo la tentazione di tornare lì dove si è stati così bene, a soli 52, fu troppo forte di ogni altro richiamo. Nonostante la Juve si fosse indebolita, e parecchio.
Non aveva più i Platini, i Cabrini, non c’era neanche Pablito Rossi. Era un’altra era e ovviamente un altro gruppo di uomini. Dal 1991 al 1994, la Juve dovette allora inchinarsi al Milan di Capello, tra i più forti di sempre. In Europa però arrivò qualche sorriso: con Baggio e Vialli, i bianconeri riuscirono a portare a casa una Coppa Uefa non scontata. Contro un nemico, poi, che più avanti avrebbe dato proprio a Lippi una lezione di superficialità: il Borussia Dortmund.
Insomma, non è stato sempre tutto rose e fiori. Ma la storia insegna: la Juve fa un passo indietro solo per chi ha amato davvero, non per le cottarelle estive che si tramutano in errori nella primavera successiva. Boniperti lo fece anche nel 1959: ma era Carlo Parola, bandiera della squadra e su commissione diretta di Umberto Agnelli. Pure qui: un Agnelli deciso e decisionista, mosso dall’affetto. Corsi e ricorsi storici che raccontano tantissimo di cosa sia la Juventus: una macchina per la vittoria, ma ogni tanto spunta fuori un sentimento.