Il biscotto presuppone un’intesa tra la mano che lo inzuppa e il latte nel quale viene inzuppato: un legame particolare, inviolabile a tal punto da far credere che senza il primo elemento non si dia il secondo né il terzo. Forse non a caso la nostra lingua – ma non è la sola – fa risalire l’etimologia del termine “fascino” al “fascio” nel senso della stretta, del legame indissolubile. Il biscotto ha un fascino particolare: è l’alimento del popolo italiano. Ed è anche, insieme, parolina magica in ambito calcistico: in questo contesto parlare di biscotto, curiosamente, significa invertire il suo significato quotidiano; un “biscotto” è qui partita “combinata”. Scompare il legame, il sacro vincolo di fiducia tra chi gode e l’elemento del godimento. Come nel Sottosopra, ciò che è buono diventa malvagio, e la legge – dura – si fa imbroglio – malleabile.
È da questa immagine, del solido che si scioglie fino a diventare appiccicoso, che si servono non gli italiani ma i loro fratelli argentini per definire lo stesso fenomeno calcistico: qui il termine non è più biscotto, ma “marmelada”, marmellata. D’altronde cos’è la marmellata, se ci pensate bene, se non il frutto che si è sciolto senza dissolversi? È diventato altro, quel frutto: si è trasformato in qualcosa che ha conservato la sua essenza ma ha perso la sua forma. Come una combine: una partita di calcio che ha mantenuto il suo assetto visivo, ma ha perduto il suo pathos interiore. Un episodio su tutti lo restituisce alla Storia di questo meraviglioso – e tragico – sport: la marmelada peruana (“peruviana”) di Ramon Quiroga.
Quiroga, l’argentino che parò per il Perù
Nato a Rosario, in Argentina, il 23 luglio del 1950, Quiroga condivide il proprio cognome con uno dei più grandi scrittori ispano-americani del Novecento (che di nome fa Horacio). Con la penna uruguagia Ramon condivide il gusto per l’insensatezza dell’esistenza. Uno dei primissimi racconti di Horacio si intitola Sin razón, pero cansado. Nessuno chiederà al Quiroga calciatore la razón di quei 90 minuti contro l’Argentina ai mondiali del ’78: tutti sanno che egli era cansado, stanco per le continue pressioni di stampa (brasiliana, soprattutto) e regime (argentino) sul suo passato albiceleste.
In effetti le leggi (morali e calcistiche) in quella partita si ribaltarono: l’atto giustificò le intenzioni, non viceversa. Quiroga vestiva la maglia del Perù, quel giorno. A questa nazione egli si era legato molti anni prima dopo aver vinto in terra natia con il Central (due Torneo Nacional nel 71 e nel 73) ed essersi trasferito proprio dopo il secondo successo col Rosario allo Sporting Cristal, squadra peruviana appunto.
Al Central lo chiamavano fin dalla primavera Chupete, che sta per piagnone o rompiscatole. In Perù egli perde la voglia di difendere tra i pali: non ottiene i consensi che forse credeva di meritare, così decide di tornare in Argentina, stavolta all’Independiente fresco campione della Libertadores nel 1975. Quiroga non trova pace, però. Passano due anni e ritorna nuovamente in Perù, quasi in preda ad una febbrile smania di riconoscimento. Infatti riapproda nuovamente allo Sporting, dietro lauto contratto e una promessa indelebile: ottenere il passaporto peruviano e difendere i pali della Banquirroja.
Egli si ispira a Gatti, e come per il portiere argentino lo chiamano El Loco. Il suo gioco è in tutto e per tutto identico a quello di Hugo: predilige l’uscita tra i pali e alterna con indifferenza sospetta paratissime a papere da portiere pensionato. René Higuita, in una celebre intervista, dirà di ispirarsi ad entrambi.
Durante il Mondiale corrotto, quello organizzato (in tutti i sensi) nel 1978 dal Regime Videla, Quiroga si distingue per ottime prestazioni nel primo girone. È il D, quello con Olanda Iran e Scozia. All’esordio, il Perù ha la meglio sulla Scozia (3-1). Nella seconda partita del girone, Quiroga mantiene la porta inviolata contro la temibilissima Olanda, per poi superarsi nell’ultima partita contro l’Iran (4-1). Passaggio del turno e possibile sorpresa del torneo. Almeno fino al secondo girone, quando i sudamericani incrociano – in un derby pericolosissimo – Argentina e Brasile, oltre alla malcapitata Polonia.
Quel controverso Argentina-Perù 6-0
Contro il Brasile, il Perù è carne da macello (3-0 per i verdeoro). Contro la Polonia, è un disastro (1-0 per i polacchi). Rimane l’ultima partita, quella contro l’Argentina, da giocarsi in contemporanea con Brasile-Polonia (è l’era dei due punti a vittoria: Brasile e Argentina sono a 3, Polonia a 2). Succede però qualcosa di strano: l’organizzatore decide di anticipare di un paio d’ore la partita del Brasile con la Polonia, probabilmente per preparare al meglio il biscotto – pardon, marmelada.
A 10 secondi dall’inizio di Argentina Perù la differenza reti indica uno scarto di 4 reti dell’albiceleste rispetto al Brasile – che ha fatto ampiamente il suo. Il frutto è tanto maturo da essere ammaccato. Se non fosse che esso, come detto, può facilmente trasformarsi in marmellata. Il resto è storia, tra leggende legate al cartello di Cali, intimidazioni (non troppo leggendarie, ma testimoniate da alcune fonti) di Videla e dirigenti argentini a Quiroga prima del match, e voci di una stampa brasiliana che denunciava il misfatto a 24 ore dal suo effettivo accadere: quel match finirà 6-0 per l’Argentina, che passerà il turno a discapito dei cugini brasiliani.
Qualcuno narra di un Quiroga ubriaco a fine (inizio?) partita, barcollante tra paura e tasso alcolemico piuttosto elevato. Egli d’altronde aveva amici, famiglia, parenti vari e un popolo intero – il suo popolo, per inciso – ad osservarne le mosse. Eventualmente, pronto a scagliarsi contro di lui in caso di eccessivo impegno. Un’eventualità remota come la reversibilità dalla marmellata al frutto. Quattro di quei sei gol arriveranno nella ripresa, certificando tutta la potenza del regime Videla.
Le rivelazioni di Velasquez
Nel 2018, il centrocampista peruviano protagonista di quel mondiale Velasquez svelerà i retroscena di quel delitto a luci spente: “Accaddero cose strane e fu tutto molto squallido. Ricordo che Videla entrò nel nostro spogliatoio prima del calcio d’inizio insieme al segretario di Stato statunitense, Kissinger, per augurarci una buona partita e ricordarci che i nostri Paesi avevano sempre collaborato e vantavano ottime relazioni. Suonò tutto come una minaccia velata, fu come dirci che se non avesse vinto l’Argentina sarebbe successo il putiferio”.
Velasquez parlerà di sei corrotti tra le fila del Perù, nominando ovviamente anche Quiroga: “La sera prima della partita ci riunimmo con il tecnico Calderon, il quale ci garantì che Quiroga non avrebbe giocato, perché di origine argentine. Poi, un’ora prima del calcio d’inizio, lo vidi inserito nell’undici titolare. Dei giocatori scesi in campo quel giorno, almeno sei si vendettero la partita. Era tutto fin troppo chiaro”. Come il riflesso di una marmelada: morbido e inesistente come il frutto del quale è pallida immagine.