Di primo acchito, la domanda che ci siamo posti oggi suona eccessivamente filosofica.
Chiedersi infatti quanto conti l’allenatore per i risultati di una squadra di calcio è come ridurre la (mala/buona) educazione e preparazione dei ragazzi di scuola al lavoro dell’insegnante. In entrambi i casi, se le cose vanno male siamo portati a dire: ma che ci sta a fare, allora, l’allenatore/l’insegnante? Parimenti, se le cose vanno bene, ci complimentiamo con i risultati ottenuti dai calciatori e dagli alunni, senza includere in quelli il (buon) lavoro dell’allenatore/dell’insegnante.
L’importanza del contesto
Ora, per citare uno dei più illustri esempi di ‘allenatore gestore’, cioè Max Allegri: ci vuole equilibrio. Le colpe e i meriti vanno divisi, sempre. E quindi la domanda filosofica, per quanto urgente, va ponderata con attenzione, senza affrettarsi nel dare una risposta insieme generale e generica. Ogni caso fa scuola a sé, detto altrimenti.
Ma c’è un elemento, finora taciuto, che aggiunge al dibattito ulteriore pepe: il contesto – o, per usare la bella terminologia tedesca, il Sitz im Leben. Gli allenatori, cioè, non sono interscambiabili, e ogni allenatore è quello giusto (o quello sbagliato, naturalmente) in quel determinato ambiente, in quel particolare momento della stagione o della storia del club.
Il Sarri di ‘ricostruzione’ al Napoli o alla Lazio è l’allenatore ideale al momento giusto per dare ad una rosa forte ma non fenomenale una possibilità in più di crescere e raggiungere – perché no – vette fenomenali. Il Sarri di ‘gestione’ alla Juventus dei Chiellini e dei Cristiano Ronaldo è invece quanto di più errato, confuso e disorientante potesse accadere nella storia recente del club bianconero.
Così, lo scorso anno, un report dell’UEFA – niente di meno – si cimentava in preziose quanto ampollose analisi sul modo di giocare dei top club europei, notando come tutte le squadre scegliessero fin dai primi minuti un approccio aggressivo, con la squadra alta e gli esterni ancor più alti. Tutte le squadre, pardon: quasi tutte. Tutte tranne una: il Real Madrid di Ancelotti, definito dallo stesso report ‘Re Mida’ per essere l’unico allenatore europeo a ottenere risultati incredibili – come la vittoria dell’ultima Champions League – con una squadra dal calcio anti-moderno. Altro che baricentro alto, Re Carlo si copre e lascia libere le (sopraffine) individualità che ha lì davanti. Tanto prima o poi qualcuno il gol lo fa.
Gestori vs giochisti
«Gli attori principali sono sempre i giocatori», dice un altro ‘gestore’ come Allegri (regola numero 15 di ‘è molto semplice’). Allo stesso modo Ancelotti: «Non penso di essere un allenatore di vecchia generazione. Rimango convinto che la cosa più importante, nel calcio, è rispettare le caratteristiche dei giocatori. Sono sempre i singoli a fare la differenza». Non è forse questo ciò che più conta nell’essere un allenatore (vincente)? Non è forse rispettare le caratteristiche dei singoli, lasciandoli liberi di esprimersi al meglio, la vera chiave del successo di un tecnico?
Di tutt’altro avviso – e scuola – gli apostoli del ‘giochismo’, cioè quella schiera di allenatori più o meno giovani che preferiscono sospendere il verdetto dei risultati del campo per lavorare prima e a fondo sull’identità di gioco. «Gli allenatori gestori non esistono più, sono superati dal tempo», ha detto e spesso ripetuto Lele Adani. Per Maurizio Pistocchi, addirittura: «Gli allenatori si dividono in due categorie: quelli che insegnano, e quelli che gestiscono. I primi sono pochi, hanno più problemi, ma alla fine lasciano un segno importante. I secondi sfruttano il lavoro altrui, vincono ma non convincono, e alla fine non lasciano niente». Modello ideale di questa Accademia è Marcelo Bielsa, il padre di tutti gli allenatori di campo.
Ci si potrebbe poi chiedere quanto conti cambiare l’allenatore in corsa, un altro (falso) mito del calcio contemporaneo. Lo hanno fatto ad esempio Andreas Heuer, Christian Muller, Oliver Rubner, Norbert Hagemann, Bernd Strauss in un recente studio dal titolo ‘Usefulness of Dismissing and Changing the Coach in Professional Soccer’. Questi sono partiti dall’assunto che cambiare in corsa o esonerare l’allenatore non provochi impatti rilevanti sulla squadra. I ricercatori hanno analizzato gli esoneri avvenuti a metà stagione in Bundes dal 1963 al 2008. Il risultato dell’impatto del cambio-gestione si attesta sul 12%. Pochino, quasi nulla. Lo studio, a livello statistico, non prende poi in considerazione il fattore mentale dei singoli giocatori, chiamati alla riscossa personale dopo l’esonero di un allenatore – che chiaramente li responsabilizza e non di poco.
Troppo peso all’allenatore?
Ormai da due, tre anni, soprattutto in Italia, gli allenatori sembrano precedere i singoli.
Le dichiarazioni degli allenatori, le loro strategie tattiche e i lori cambi a partita in corsa sembrano essere gli unici responsabili dei risultati di una squadra. Da Conte a Inzaghi, da Mourinho a Sarri, da Allegri a Spalletti. E allora via con le sigle: ilNapolidiSpalletti, laLaziodiSarri, lInterdiInzaghi.
Ma siamo proprio sicuri che quella sugli allenatori non sia una mania troppo facilmente utilizzabile in un’epoca che ha bisogno di sintesi, colpevoli e letture superficiali per non fermarsi troppo a lungo a riflettere con pazienza sulle reali ragioni ‘di campo’? L’allenatore conta e come, comunque. Ma conta sempre più in un’epoca di calciatori più che uomini.
Parlando di Guardiola, come si potrebbe dire di Nagelsmann, Tuchel, De Zerbi et similia, Ancelotti ha detto: «Le sue squadre sono sempre molto ben organizzate, ma io credo che non tutti vogliano le squadre molto ben organizzate. L’organizzazione la devi avere in fase difensiva, ma in fase offensiva (con una rigida organizzazione) se gli avversari ti leggono bene è molto più facile per loro. Se io volessi avere un Real Madrid organizzato dovrei dire a Benzema di fare il centravanti fisso, senza svariare a destra o a sinistra perché ci sono già altri giocatori che occupano quello spazio; ma se il genio Benzema pensa che a sinistra può creare qualcosa di positivo per la squadra… perdiamo un po’ di organizzazione, ma acquistiamo in creatività e imprevedibilità».
Due anni fa, prima di perdere malamente la finale di Champions contro il Chelsea, Guardiola diceva che ‘il centravanti è lo spazio’. Due anni dopo, ci ha ripensato. E ora quel centravanti potrebbe regalargli il titolo tanto ambito. Momenti, contesti, scelte. Equilibrio. Evviva gli allenatori, ma in campo ci vanno i calciatori, sempre.