Formulando la questione dei nuovi Maradona, due punti s’impongono impellenti fin da subito: è mai esistito il nuovo Maradona? Come vedremo, la risposta a questa prima domanda suona insieme sì e no. Il secondo punto, più semplice per certi versi, scaturisce dall’ambivalenza della risposta alla prima domanda, e cioè: se è esistito o sono esistiti dei simil-Maradona, dovrà comunque essere ristretto il cerchio ad una cerchia – si perdoni la ripetizione, non casuale – di pochi eletti.
L’analogia. Lionel Andrés Messi
Partiamo dall’inizio, cercando di procedere con ordine. È mai esistito, dunque, il nuovo Diego Armando Maradona? Se rispondiamo di sì, la risposta è univoca, non include cioè molti simil-Maradona ma uno soltanto: Lionel Andrés Messi Cuccittini. Per trattare la questione col dovuto rispetto, dal momento che qui entriamo in teologia negativa, sarebbe più opportuno non porla affatto. Costretti dall’indagine, ci limiteremo qui a trattare l’argomento lateralmente.
Messi è senza dubbio il giocatore che, per caratteristiche e qualità tecniche, più si è avvicinato a Maradona. Mancino come quest’ultimo, brevilineo, di statura simile – Diego è 5 cm più basso di Leo –, anch’egli ha giocato al Barcellona, club di cui è leggenda, simbolo, bandiera, ma non solo. Messi a Barcellona è di casa; la casa di Diego, che dal Barça pure è passato, è molto più semplicemente l’Argentina. È vero, Diego si è rivelato DIOS a Napoli, ma è salito al cielo, con la mano, contro l’Inghilterra – la nemica di sempre dell’albiceleste.
Con l’Argentina Maradona ha vinto un Mondiale da assoluto protagonista nel 1986, sfiorando il bis a Italia 90 – finale persa contro la Germania. Con il popolo argentino, Maradona ha legato per l’eternità. A distanza di tanti anni, il coro che continuano a cantare gli argentini, anche i più giovani, ha lui come soggetto protagonista, e culmina nella frase: «Maradona è più grande di Pelé».
È vero, Messi con l’Argentina ha avuto sfortuna, ma non è questo il punto. Non è tecnico, il punto, è religioso. Diego Armando Maradona non è stato solamente il più grande calciatore di ogni tempo, ma una guida inimitabile per carisma, attitudine, forza caratteriale. Il suo sangue argentino ha vinto laddove Messi ha scelto la Catalogna. Quest’ultimo fatto, si badi bene, non è interpretato da chi scrive, ma è resocontato dalla stessa realtà. Andate in Argentina e chiedete chi è l’hombre del pueblo: vi risponderanno, al più, “Carlos Tevez”. Eccoci al secondo punto.
Tevez, Lavezzi, Zárate. Simili nella distanza
Carlitos, dunque. El Apache. Un soprannome che dice già tutto. A Villa Palito, il quartiere dove il piccolo Carlos ha mosso i primi passi – purtroppo, o per fortuna, non solo quelli calcistici – capeggia un gigantesco murales ritraente l’Apache con una lunga chioma e, alle sue spalle, gli inconfondibili colori del cielo, quelli dell’Argentina, il bianco e il celeste. “Da Villa Palito un riconoscimento a una persona che non ha mai dimenticato le sue origini”. Qui, naturalmente, non parliamo di una somiglianza tecnica, né solo carismatica. Quando mettiamo a paragone Tevez e Maradona, la questione è piuttosto famigliare. La famiglia di Diego e quella di Carlitos condividono, allo stesso modo, la passione per la propria terra, ciò che il popolo non dimentica mai.
A proposito di famiglia. Quando si parla di Napoli, Maradona c’è sempre. Soprattutto, quando si parla di Maradona, Napoli risponde prima ancora che DIOS pronunci qualcosa. Nel novembre del 2010, Maradona se ne uscì con la frase: «Lavezzi straordinario. Merita la mia maglia, la 10». Parole che Maradona non si è azzardato a dire in nessun’altra occasione – nemmeno quando, lo scorso anno, si paventava l’idea, che oggi suona come uno scherzo, di vedere Insigne, napoletano doc, con quel numero sulle spalle. Ezequiel Lavezzi, negli anni di Napoli, fece faville. Giocate da fuoriclasse assoluto, da trascinatore, ma anche periodi di buio calcistici come esistenziali.
Diverso il discorso per un altro simil-Maradona “nostrano”, Mauro Matías Zárate. Di Zárate gli italiani, e in modo particolare i tifosi della Lazio, ricordano una stagione, la 2008/2009. Un anno irripetibile per il talento argentino, che a quei livelli non è più stato in grado di ripetersi. E ci mancherebbe altro. Sarebbe stato il più grande di tutti, altrimenti. Quell’anno “Maurito” segna a raffica, fornisce assist, muove da solo le partite, nel bene e nel male – più nel bene che nel male. Fa vincere alla sua Lazio una Coppa Italia che sblocca lui stesso con un destro a giro poderoso – uno dei tanti gol bestiali di quella stagione. Con Maradona condivide più amarezze che gioie. Diego, allenatore della Selección, non vedeva Mauro, giocatore della Lazio. L’anno successivo si spegne la fiamma, e di Zarate non rimane che un flebile fuoco. Oggi gioca al Boca Juniors.
I nuovi Maradona, tutta tecnica e creatività
Ci sono anche, però, nuovi Maradona a livello se non carismatico, aspetto che comunque, parlando di Diego, non è possibile eludere, perlomeno tecnico. Spariamo dei nomi. Spariamo due nomi: Ortega e Aimar. Giocatore completamente folle il primo, folle per gioco – per il gioco del calcio – il secondo. Soprannominato non a caso el Payaso, Aimar è un fuoriclasse dal viso buono. La sua grandezza è puramente calcistica, la qual cosa fa intendere di che razza di giocatore si parli. Tecnica sopraffina, visioni di gioco create ex nihilo, ha del DIOS proprio questo: la creatività. Paragonarlo a Maradona, però, risulta difficile per altri mille motivi; il carisma è solamente l’ultimo di questi “mille”.
Con Ortega, el Burrito, il discorso suona sensibilmente diverso. Amore perduto per eccellenza, Ortega, vuoi per la sua indole violenta, vuoi per la sua attitudine eccessivamente negligente, non ha mai raggiunto quella grandezza – certificata dai successi – che il suo talento gridava a suon di magie. Colpi di tacco, dribbling funambolici, filtranti luminosi e tocco di palla davvero paragonabili a quelli del mas grande. Il caso vuole che el mas grande sia anche il motto del River Plate, squadra nella quale milita Ortega, e dalla quale l’asinello si dilegua piuttosto presto; destinazione Europa. Tra le giocate più luminose, vedasi il suo gol in un Sampdoria 4-0 Inter, 21 marzo del 1999, che costerà la panchina all’allora allenatore nerazzurro Mircea Lucescu.
Finale. El Mudo Riquelme
Un caso a parte è rappresentato da Juan Roman Riquelme. Non ci sono stati, dopo Maradona, giocatori così belli – da vedere – come Riquelme. Si potrebbe citare Guti, di una bellezza però più a fari spenti; si potrebbero citare Totti, Baggio, Zidane, certo. Ma il punto qui è un altro. Il punto è che Riquelme esce fuori da ogni paragone, persino quello – decisamente il più inflazionato di tutti – con Diego Armando Maradona. Riquelme è riuscito dove altri non hanno nemmeno immaginato: spodestare Diego dal trono del Boca Juniors, facendosi parlare alle spalle come “el Ultimo Diez”.
L’ultimo dieci della storia, dunque. Almeno per ora. Riquelme, con il suo calcio metafisico, ci ricorda un dettaglio non irrilevante ai fini della nostra indagine: ogni giocatore è unico. In quanto tale andrebbe accolto, con i pregi e i difetti che questi si porta con sé. Ognuno dei giocatori sopra nominati è stato unico. Ma ognuno di essi lo abbiamo paragonato, pur con un’analogia della distanza, a Diego Armando Maradona. Questo, per Riquelme, non solo non è possibile, ma non è corretto farlo. Il suo soprannome è el Mudo, e qui, allora, ci tacciamo.